“Selfie ergo sum” è il nuovo album degli Altare Thotemico – La recensione
Dal 30 settembre è disponibile per Ma.Ra.Cash Records il nuovo album della band Altare Thotemico, dal titolo “Selfie ergo sum” che contiene nove brani inediti. La formazione della band comprende il fondatore Gianni Venturi (voce, testi), Marika Pontegavelli (piano, synth, voce), Agostino Raimo (chitarre), Giorgio Santisi (basso), Filippo Lambertucci (batteria e percussioni). Non mancano gli special guests Emiliano Vernizzi (sax), Matto Pontegavelli (tromba), Gigi Cavalli Cocchi (grafica).
Nove brani per quasi un’ora di musica, in cui ogni canzone ha quasi sempre diverse evoluzioni, di ritmo, di sonorità e di voce. Il titolo del disco viene spiegato più che bene nel brano che porta il suo nome e dalla copertina che mostra la Statua della Libertà di spalle che con il braccio libero usa il bastone dei selfie per farsi una foto.
Andiamo più nel dettaglio.
“Non in mio nome” inizia con un arpeggio cupo e un testo forte “i soldati vanno, marciano e non pensano, ma quando arrivano, sparano” che a tratti diventa quasi urlato, a raccontare un episodio di guerra, che termina quando entrano tutti gli altri strumenti e la chitarra si erge con un potente assolo che va a unire i cori, in un’atmosfera che ricorda il gothic, prima di terminare così come è iniziato: “senza profitto non c’è conflitto”.
“Game over” è un hard rock ipnotico nell’intro, per poi virare a un giro orientaleggiante a introdurre le parole che dicono con foga “love me love me, time is over, time is over”; la voce di Marika dona un tocco vellutato nonostante gli intervalli complessi e a volte dissonanti.
“Schopenauer” è una brano roboante che alterna momenti dolci e lenti a intermezzi hard rock; l’intro, lento si avvale della chitarra e i vocalizzi di Marika che fa anche da controcanto a Gianni “le tre partizioni dell’essere vivo quello che hai ciò che sei quel che appari”. Il brano si divide in due parti, la seconda è una ballata struggente piano e voce con versi che parlano duramente dell’uomo: “la paura è una malattia, striscia nell’anima di chi la prova”.
“Madre terra” inizia con la voce di Marika che si divide in più armonizzazioni per lasciare spazio poi alla chitarra e alla voce, in un brano potente con un testo sulla creazione e sulla progenitrice, a piena voce: “che avete fatto della madre grida lo specchio santo, che avete fatto della madre grida lo specchio rotto”.
“Ologramma vivo” è un hard rock che ospita la presenza insolita del sax e un testo che è un flusso di coscienza che va a confluire nel sentirsi un controsenso, come un ologramma vivo: “io canto e non sento nulla, io guardo e non vedo nulla”.
“Luce bianca” è un brano intimo, che punta sul ritmo e sugli strumenti in sordina per dare risalto alle parole e alla voce; l’arrangiamento ospita la tromba, il testo è a tema immigrati, con la voce di Gianni che esprime tutta la sua partecipazione: “sale il grido dei bambini, dei bambini vestiti di mare”. Molto belli i cori di Marika.
“Selfie ergo sum” è un brano insolito, con suoni in sottofondo e parole pronunciate a volte parlate e a volte seguendo una melodia autonoma, ma questo prima che inizi il brano vero e proprio, dalle sonorità psichedelica, in cui il titolo è come un mantra che viene evocato non solo da versi come “non ciò che sei conta, ma ciò che mostri”, ma anche evocando Leopardi “nel pensier mi fingo” prima di approdare ad un solo di pianoforte e una parte della canzone che assomiglia a una filastrocca recitata in toni oscillanti tra i registri alti e quelli bassi: “tutti in fila allegramente” e chiudersi con un assolo di tastiera e un riff prog della chitarra in sottofondo.
“Bianco orso” inizia con il pianoforte e assomiglia a una canzone per bambini, in cui le voci di Gianni e Marika si armonizzano, anche se non si tratta di una favola, il testo ha ben diverse immagini, che prendono poi forma con il ritmo di marcia e la melodiosa voce di Marika “porpora è la madre che culla di gomma la salvezza” fino al finale accelerato e psichedelico.
“Poesia crepuscolare” è una ballata piano con influenze jazz e due voci, l’unico brano del disco che mantiene linearità nello stile:“sottile è una striscia di cielo, sprofonda nel velluto della terra, candida la distesa di anime sognanti, appesa ad un filo la follia”. La tromba abbellisce il tutto.
Un ascolto non facile, per le variazioni frequenti, ma apprezzabile e che lascia la sua impronta; il disco conferma la grande duttilità della band nell’affrontare stili diversi sempre in modo efficace.
Roberta Usardi
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