“Vorrei una voce”: Uno scintillante Tindaro Granata porta in scena Mina e i sogni delle detenute del carcere di Messina
Esistono senza dubbio eventi in grado di “cambiare la vita” di una persona. È questa, sotto-sotto, la segreta (e piuttosto ambiziosa) speranza che ci guida allorché, da spettatori, decidiamo di andare a vedere uno spettacolo; anche se poi, trattandosi di una sorta di miracolo, sappiamo che ciò molto difficilmente accadrà.
Uno spettacolo, però, può cambiare la vita anche a chi “lo fa”: è il caso di Tindaro Granata, che qualche anno fa (era il 2019), in un momento personale particolarmente buio, venne chiamato a realizzare un Progetto Teatrale all’interno della sezione femminile di alta sicurezza della Casa Circondariale di Messina. “Vorrei una voce”, divenuto oggi spettacolo, è perciò il frutto prezioso di quattro anni di lavoro e di profonde emozioni condivise con cinque ragazze recluse a Messina, in cui sono le loro anime, piuttosto che le loro storie, ad andare in scena attraverso la toccante interpretazione di Tindaro… e le parole di Mina.
Il pretesto drammaturgico di partenza è infatti rappresentato dall’intento di mettere in scena l’ultimo concerto, quello del 1978 alla Bussola di Viareggio, dell’artista che forse più di ogni altra ha saputo raccontare pensieri, angosce e fallimenti della vita e “fatto volare” molti di noi con la sua voce. Ma Mina, in questo caso, è ben più di un pretesto drammaturgico: è la “voce” attraverso cui le cinque detenute-attrici ci raccontano le loro storie o meglio, come premesso, le loro anime. Tutto ciò accade magicamente nel Laboratorio interno al carcere, dove attraverso il playback e gli abiti di paillettes le ragazze riescono a esprimere ciò che in loro è rinchiuso da troppo tempo. Questa eccezionale esperienza diventa oggi, grazie al suo artefice Tindaro Granata, uno spettacolo.
Nel suo monologo, Tindaro Granata si spoglia e invita tutti noi a spogliarci da ogni giudizio e pregiudizio: queste persone sono lì per una ragione, sono state già giudicate e non c’è alcun bisogno di farlo di nuovo. È invece importante per noi ascoltare, con il cuore, ciò che sono, le loro angosce, i loro sentimenti, non ciò che hanno fatto in passato. Attraverso la forma del cunto, già adottata magistralmente nel suo spettacolo-capolavoro più rappresentativo, “Antropolaroid”, Tindaro Granata attinge con rara maestria attorale alla sua parte femminile per interpretare, anzi “diventare”, ciascuna di loro e in più anche sé stesso, o meglio il vero sé stesso; quello oscuro, a volte indicibile, comunque per noi inedito. Il Tindaro che si confessa a noi da bordo palcoscenico è il bambino, e poi il ragazzo, costretto a vivere, come le donne che interpreta, in una gabbia. La sua è la nostra stessa prigione, a volte invisibile, quella di chi sente di essere in un luogo sbagliato, con persone sbagliate intorno; o anche in un mondo dominato dai maschi, o in un corpo che non riconosciamo, o in cui non riusciamo più a riconoscerci. Sono tantissime le gabbie che circondano tutti noi, e per aspirare alla libertà è importante, prima, riuscire a riconoscerle; come ci ricorda la stessa Mina, in un brano pubblicato recentemente (non presente nello spettacolo):
Mai, chi l’avrebbe detto mai
Che sarei finita qui
Nel girone dei più deboli?
Qui non so più chi sono io
Perché dentro il cuore mio
Regna il re dei miserabili
Tu con metodica follia
Lasci nella vita mia
I tuoi segni incancellabili
E non c’è chi al posto mio
Con un po’ di dignità
Resterebbe un solo giorno di più
Io invece non mi muovo, sto qui
Come se fossi in gabbia
Mina – “La gabbia” (dall’Album “Ti amo come un pazzo” – 2023)
Di fatto, quello a cui siamo chiamati a partecipare nel momento in cui Granata, seduto sul bordo del palcoscenico, ci parla guardandoci (guardandoci davvero) negli occhi, è un rito collettivo: un rito liberatorio, che coinvolge lo stesso Tindaro che racconta, oltre alle altre, anche la sua storia, e così facendo si mette a nudo davanti a noi e “si libera”; di più, è un rito di transustanziazione, in cui l’Artista si fa corpo e sangue delle sue detenute, ne interpreta le fisicità, i tic nervosi, il modo di parlare, quello di ridere, e riesce a portare loro “fuori” e noi “dentro” un’intima sofferenza di vita. La potentissima capacità di empatia di Tindaro Granata (incontenibile e ancor più coinvolgente, a volte, anche attraverso le sue genuine incertezze) riesce a creare, magicamente, un ponte tra la sua umanità e quella delle cinque protagoniste, fino a toccare le profondità emotive più recondite di noi spettatori.
Le prime parole che mi sono venute alla mente assistendo a questo spettacolo sono state, citando Lao Tzu:
“Ciò che per il bruco è la fine del mondo, il mondo la chiama farfalla”
Lao Tzu
È una questione di prospettiva, anzi di prospettive, e se questo progetto-spettacolo fosse un’immagine sarebbe una finestra con le sbarre attraverso cui escono e volano libere tante farfalle colorate. È il miracolo del Teatro, capace in senso lato di attraversare ogni limite visibile o invisibile, comprese le mura di un carcere. Grazie al Teatro, e a un progetto-spettacolo come “Vorrei una voce”, certe storie possono librarsi in volo, e le donne che ne sono protagoniste indossare tacchi, costumi e trasformarsi in farfalle scintillanti e libere. Non a caso, una delle scene più toccanti dello spettacolo arriva a sorpresa verso la fine, e paradossalmente è un video: dopo averle conosciute attraverso il corpo dell’attore e le parole di Mina, le cinque detenute-attrici finalmente le vediamo, durante le prove. E ci sembrano davvero farfalle. Farfalle magnifiche. Farfalle scintillanti.
A. B.
Dopo essere stato a Lumezzane e a Breno (Brescia) il 16 e 17 gennaio, “Vorrei una voce” sarà al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 21 al 26 maggio.
Teatro Foce di Lugano
11-14 gennaio 2024
Vorrei una voce
Di e con Tindaro Granata