Vivaldi e Piazzolla: non quattro ma otto stagioni
Torino: il Teatro Regio continua ad offrire serate di tutto rispetto. E anche qualcosa in più. Sabato scorso, il 10 luglio, è stata la volta di Sergey Galaktionov, che ha guidato l’orchestra d’archi sabauda in un’impeccabile danza d’archetti. Il programma, fresco ed effervescente ma poi anche riposante, ha visto coinvolti due grandiosi esponenti della storia della musica: Antonio Vivaldi e Astor Piazzolla. Nonostante il divario spaziotemporale, i due autori sono facilmente avvicinabili e confrontabili attraverso la formula delle Stagioni. Già, perché a distanza di due secoli e mezzo, Vivaldi e Piazzolla hanno entrambi musicato – se non proprio liricato – i quattro momenti climatici che ciclicamente ricompaiono confermando gli occulti e delicati equilibri della natura.
Si era fra il 1723 e il 1725, quando Vivaldi componeva Le Stagioni (concerti per violino, archi e basso continuo, ne Il cimento dell’armonia e dell’inventione), unici brani sopravvissuti nella memoria collettiva, al netto degli oltre settecento titoli del compositore veneziano, molti dei quali dimenticati con la morte dello stesso. Come ha opportunamente spiegato Liana Püschel nel programma di sala, si tratta di quattro solenni arazzi sonori la cui straordinaria fortuna probabilmente risiede in quella forte dimensione descrittiva che sa coesistere però col barocco più sfrenato, dissoluto, sfarzoso, nonché sublime. Fronzoli realistici, virgulti oggettivi. E si era poi tra il 1964 e il ’70: Piazzolla plasmò las Cuatro estaciones porteñas, che già nel titolo racchiudono l’ispirazione e il rispetto per il Prete Rosso. Chiaro, qui c’è anche dell’altro rispetto a Vivaldi: bisognerebbe essere sordi per non distinguere limpidamente il jazz, la bossa nova, l’emisfero australe, la gente di Buenos Aires, le cicale in autunno e il tango in primavera. Lo schema della serata, dunque, univa, alternava e confrontava questi otto brani, offrendo pertanto al pubblico non solo due ore di melodie eccelse, ma anche una vera e propria lezione di storia della musica: attraverso queste partiture, infatti, non solo si entra in contatto con i nostri ambienti e paesaggi, ma si possono intuire se non addirittura comprendere le essenze di interi secoli, i significati delle correnti artistiche e il valore delle dispute filosofiche. Per quanto apparentemente astratti, questi motivi, queste note, ci aiutano a ricostruire e indovinare il nostro habitat: con Vivaldi giungono le tempeste di neve e di vento, il fuoco crepita nel camino, le corolle si schiudono, le api impollinano i prati, gli insetti vibrano fra le frasche, le onde danzano sbrigliate al largo degli oceani, gli umani si ritrovano per bere del vino sincero e divertirsi, gli ubriachi barcollano e ridono, le foglie secche frusciano fra i viali, i cani accompagnano i loro padroni in una virile battuta di caccia. E con Piazzolla affiorano e poi spiccano certe serate di tangos nei cabaret argentini, l’umidità di Buenos Aires, la malinconia delle calure canicolari e subito crepuscolari, la voglia di correre, di respirare, di scoprire, d’imparare, di ballare, di viaggiare.
La resa del concerto presieduto e coordinato dal primo violino di Galaktionov, coadiuvato da Luca Brancaleon al clavicembalo, è stata davvero ineccepibile. Mai una sbavatura, o un inciampo, né mai è venuta meno la convergenza fra le parti. Accettabili e in fin dei conti brillanti certune licenze; accattivante, infine, il saltuario disordine fra gli spartiti che magari inseriva un rigo di Vivaldi dentro Piazzolla e viceversa. Gli astanti apprezzano moltissimo: nessuno si ammutina nonostante le ripetute aggressioni delle zanzare, gli applausi proseguono per decine e decine di minuti, e persino le rondini (che agli spettacoli passati avevano espresso tutto il loro disappunto per quell’antropico tumulto) intervenivano solo talvolta, e quasi con ossequio, forse stupite dalle imitazioni piuttosto fedeli di certi loro garriti disseminate qua e là fra le diverse primavere. Gli spettatori chiedono a gran voce un bis, e Galaktionov prima stupisce con un fuori programma (l’Oblivion di Piazzolla) e infine ritorna ancora una volta sulla tempestosa estate di Vivaldi, che peraltro si conclude appena prima dell’effettivo e preannunciato diluvio aspergente l’urbe.
Davide Maria Azzarello