Violet Chachki a Milano: l’arte del drag e tutto ciò che ne consegue
Siamo in Piazza San Babila. Sono le 19.30 di mercoledì 18 settembre. Sotto i portici del fascistissimo Palazzo del Toro, nel brulicante traffico sintomatico del centro ma amplificato dal circo della settimana della moda, una folla si è radunata per un evento più unico che raro, e – diciamocelo – già dal carattere del pubblico si evince che al Teatro Nuovo sta per succedere qualcosa di grosso. I passanti – baluardi forse di una San Babila del passato – domandano chi c’è stasera? alle genti che aspettano d’entrare. Già, chi c’è stasera? C’è Violet Chachki, signori.
Ed eccola nel foyer, già ricoperta di lustrini, a suo agio tra i fan che si fanno fotografare insieme a lei. Ma chi è questa Violet? Facciamo qualche passo indietro. Paul Jason Dardo nasce nel 1992 ad Atlanta, in Georgia, frequenta le scuole cattoliche e a soli diciannove anni comincia a travestirsi, esibendosi come Violet Chachki. Un nome d’arte che è già tutto un programma: Violet è un tributo al personaggio interpretato da Jennifer Tilly in Bound, il film del ’96 diretto dai fratelli Wachowski, mentre Chachki è una versione un po’ americanizzata della parola yiddish tchotchke, che in italiano potrebbe essere resa come gingillo, orpello o ninnolo. La fama arriva quando partecipa al reality americano RuPaul’s Drag Race, trasmesso in Italia su Fox Life col titolo facilitato America’s Next Drag Queen. Violet, infatti, nel 2015 ha vinto la settima edizione del programma dedicato alla sgargiante arte del drag. Da lì, la sua carriera ha spiccato il volo: il giorno dopo la vittoria, pubblica Bettie, un riuscitissimo e divertentissimo video musicale che sovverte lo stereotipo della casalinga amalgamandolo con quello della dominatrice; va in tour con Dita Von Teese, la famosa show girl specializzata nel burlesque; appare spesso sulle testate giornalistiche più autorevoli; collabora con innumerevoli personaggi del mondo della moda e del make-up professionale. Ma ora vuole far sapere al mondo che c’è molto di più, e quindi sta portando in giro per l’Europa “A lot more me”, una produzione che la vede protagonista e che indaga abilmente tra i ruoli di genere e gli archetipi sociali attraverso la formula dello spettacolo polimorfo e cangiante.
In San Babila c’è tutto il jet set meneghino (ma anche internazionale) del mondo drag, della moda e affini. C’è Aquaria, che ha vinto Rupaul Drag’s Race nel 2018; c’è Myss Keta, la provocatoria cantante anonima che racconta sarcasticamente tutto l’underground di Milano; c’è la conduttrice Annamaria Annie Mazzola; c’è il fotografo Marco Ovando; ci sono i dj del Plastic; c’è l’attore di Tredici Tommy Dorfman; ci sono tante drag queens emergenti che sperano di essere notate, ci sono i designers, i truccatori, gli artisti e i loro amici e gli amici degli amici. Un evento patinato, quindi, in bilico tra un’inclusività squisitamente teorica e un esclusivismo molto concreto: questi sono di Prada, devo farli entrare per primi, spiega uno spazientito fanciullo della produzione a chi è in fila per entrare. Sembra quasi che attorno allo spettacolo si sviluppi un evento collaterale e stucchevole di pubbliche relazioni e di giovani ammaliati che chiedono un selfie alla queen prediletta. Il che, a livello antropologico, è tremendamente divertente.
Ma comunque, poi, una volta dentro, le luci calano e arriva lei, Violet. È in ritardo di mezz’ora, ma guadagna il palco col cipiglio tracotante di chi sa di essere sconvolgente: nelle prime file si percepisce quasi la furia professionale della sua hybris, che la accompagna come una madre severa lungo il corso dello spettacolo. Esordisce con A lot more me, il suo ultimo singolo, cantato chiaramente in lip-sync mentre si spoglia per rimanere solo col corsetto e le Louboutin da tredici centimetri senza plateau alcuno. Sul palco con lei, due rubensiani e sensualissimi ballerini colpiscono per la loro agilità e confortano chi non aderisce ai canoni di bellezza imperanti in questo angolo di mondo. Da quel momento, il pubblico viene assorbito in un esagitato vortice di esibizioni che spaziano con destrezza tra il burlesque, il circo e il cabaret. E, in quella circostanza, quel che colpisce è in primo luogo l’eccentrico processo di mercificazione del corpo: Violet, come altre prima di lei, propone un’esacerbazione prodigiosa del concetto eteronormato di donna, attinge ad un immaginario che va dalle dominatrici degli anni Venti alle pin-up degli anni Cinquanta e crea una bolla di accettabile sconvolgimento dove si celebra smaccatamente quell’autodeterminazione anatomica che la società nega a chiunque senza che nessuno se ne accorga. Violet fa del suo corpo un’arma di destabilizzazione di massa. E quindi interpreta la parte della figura frivola, esotica, grottesca, paradossale, intimorente, sovversiva: tutto ciò che in realtà ci viene chiesto di non essere. Spogliarsi e ostentare una femminilità artificiosa diventa un atto di protesta radicale contro i vincoli imposti alla collettività, mentre le deviazioni in materia di fetish non sono altro che l’esaltazione di quei desideri che spesso per pudore seppelliamo (efficace, in questo senso, il numero con i ballerini al guinzaglio sulle note di Silver Screen di Felix Da Housecat). Molto energica, poi, anche la componente strettamente circense che, da appendice del burlesque, diventa un vero e proprio surplus performativo: Violet volteggia nell’aria appesa ai cerchi, alle corde, alle sedie nelle posizioni più assurde e sempre costretta dalla morsa di un corsetto vittoriano. In tutto, peraltro, ha proposto ben sei cambi d’abito, più tutti gli outfit ulteriori che si creano durante le varie operazioni da stripteaseuse.
Gradevole, infine, l’idea di inserire un riempitivo tra un’esibizione e l’altra: un anziano mago americano ha proposto infatti i trucchi più vecchi del mondo, per arrivare a svelare i meccanismi dietro alcuni di essi, suggerendo quindi (come in una specie di intermezzo settecentesco ma anche didascalico) una metafora della disillusione alla base del concetto di drag.
Davide Maria Azzarello