VINCENT VAN GOGH nella superba interpretazione di Alessandro Preziosi
Ci vuole del talento, quello vero per stare in scena ininterrottamente per quasi novanta minuti, modulando voce, sentimenti, realtà, follia, pensieri, sogni, ricordi e riversarli sul pubblico sotto forma di colori, dipinti, capolavori. E ci vuole del talento, quello vero, per una così bella scrittura, una così indovinata scenografia che basterebbe da sola a raccontare anche ai profani la genialità dell’artista olandese.
Vincent Van Gogh, l’odore assordante del bianco in scena al Teatro della Pergola di Firenze fino all’11 febbraio su testo di Stefano Massini, regia di Alessandro Maggi, luci di Valerio Tiberi e Andrea Burgaretta, musiche di Giacomo Vezzani, ci regala un Alessandro Preziosi in stato di grazia che giunge alla fine della rappresentazione quasi al limite delle forze, ma forse per questo più umano, più vero, tanto che diventa difficile – se non impossibile – stabilire o giudicare cosa sia la normalità e cosa sia la follia, cosa il falso e cosa il vero, cosa il sogno e quale la realtà.
Van Gogh – Preziosi entra in scena rotolando in una stanza desolata, enorme e bianca, bianca pure una piccola pianta, rilegata in un angolo, bianche tutte le pareti sulle quali la geniale invenzione di Marta Crisolini Malatesta riproduce – privato dai colori – uno dei dipinti più celebri dell’artista “Campo di grano con volo di corvi”. É il bianco del manicomio di Saint – Remy in Provenza, perché secondo le teorie dell’epoca si riteneva che i colori fossero troppo eccitanti per delle personalità psicotiche o isteriche. Oggi sappiamo che è il contrario, che è proprio il bianco, somma di tutti i colori, a essere tremendamente negativo per chi soffre di particolari disturbi mentali. E allora, il bianco diventa un rumore, assordante appunto, dove l’artista naufraga alternando momenti di normalità a esplosioni di follia, ritrovandosi da solo o con i propri fantasmi in un’autoanalisi dalla quale è difficile uscirne vincitore. Bianco, dunque, non come simbolo di purezza, colore verginale, luce, ma come sottrazione di ogni colore, buco nero, prigione, stanze, vasche, corridoi, cancelli, dove il furore della creazione artistica è soffocato in un tempo senza tempo e senza speranza. Inutile la richiesta d’aiuto al fratello Theo (Massimo Nicolini), imbrigliato in una scusante burocratica, incalzato dagli infermieri (Vincenzo Zampa e Alessio Genchi) e dal narcisistico e odiato psichiatra della clinica Vernon- Lazare (Roberto Manzi) L’unico con cui, alla fine, il geniale artista riesce ad instaurare un rapporto di quasi normalità è “il chirurgo dei pensieri”, il direttore del manicomio, Dottor Peyron (Francesco Biscione), il solo che – usando una metodologia psichiatrica più aperta – riesce, o ci prova, a entrare nei pensieri del grande pittore sfogliandoli come un album di vecchie foto, l’unico al quale Van Gogh concede le chiavi della sua mente inquieta e travagliata.
E alla fine, nel luogo dove “il colore è una bestemmia” la genesi dell’arte esplode illuminando tutta la scena: è la parola ritrovata, lo scoppio inarrestabile della rabbia, della solitudine e del dolore, la riprova che il pensiero e la sua libertà non possono essere imprigionati in un pozzo buio di assordante silenzio.
Francesco De Masi
Foto di Manuela Giusto