Vetri Rotti – La Grande Storia e il dramma di una identità
Novembre 1938. Gli echi della kristallnacht si espandono in tutta Europa, valicano gli Oceani e giungono sino alla tranquilla e sonnolenta Brooklyn. Qui una casalinga ebrea, viene colpita improvvisamente e inspiegabilmente da una paralisi alle gambe. Il medico di famiglia non riesce a trovare alcuna causa fisica del malessere della donna e si convince della natura psicosomatica della paresi. La donna appare ossessionata dalle notizie sulla persecuzione degli ebrei che arrivano dalla Germania, osserva continuamente le foto delle vetrine distrutte e degli anziani costretti a ripulire i marciapiedi di Berlino con gli spazzolini da denti. Quegli uomini, derisi e offesi hanno gli stessi tratti del viso di suo nonno, gli stessi occhiali tondi con le astine di ferro ricurve. Ma l’angoscia per quegli avvenimenti si somma ad altre frustrazioni, non sono soltanto le vetrine dei negozi ebrei quelli che s’infrangono, ma così come si frantumano i bicchieri nel rituale del matrimonio ebraico in memoria della distruzione del tempio di Gerusalemme, scoppiano altresì le lastre di cristallo che sino a quel momento avevano chiuso, conservato e difeso la vita coniugale della donna, le insormontabili paure del marito, l’apparente menefreghismo del dottore.
Con Vetri Rotti – al Teatro Della Pergola di Firenze fino a domenica 11 marzo – Arthur Miller squarcia la tela del tempo, mescolando la grande storia con il privato di uomini e donne della realtà americana, racconta il dramma di un rapporto di coppia consumato dal rancore, di una donna, Sylvia, sottomessa al coniuge forse per sua volontà perché in fondo non ha mai provato a ribellarsi al destino e di un uomo che per tutta l’esistenza ha sentito il bisogno di dimenticare le sue origini vissute, fin da giovane, non solo come una vergogna ma anche come un fattore di svantaggio nella società statunitense. In questo difficile e livido rapporto di coppia si inserisce il dottor Hyman, attratto da Sylvia e da questa ricambiato.
Gian Marco Tognazzi, Elena Sofia Ricci e Maurizio Donadoni, bravi oltre misura riescono pienamente e bene a rappresentare il modo sofferto in cui i protagonisti di questo dramma vivono non solo il loro essere ebrei, ma anche l’ambiente angusto, provinciale e bigotto nel quale consumano la loro esistenza. Splendida la regia di Armando Pugliese con le scene di Andrea Taddei che – negli undici quadri che si susseguono senza soluzione di continuità – ha saputo far rivivere ogni più piccolo frammento di ciascun personaggio.
La paralisi della donna è una ribellione del corpo determinata dalla paura, ma è anche un segno di rivolta contro se stessa e contro il marito che, con il desiderio doloroso del rinnegare il suo essere ebreo contribuisce ad amplificare in lei il senso di pericolo e di terrore per il futuro. Quello che è difficile accettare (è questo lo snodo dell’opera di Miller, che è poi la stessa identica problematica presente in altri autori di origine ebraica come Roth o Malamud) è la consapevolezza della propria identità, quella diversità ritenuta intollerabile agli occhi degli altri e forse anche ai propri, quell’essere ebrei che costringe il marito di Sylvia a trasformare la propria vita in un capolavoro di camouflage, nascondendosi tra i Gentili, quello che alla fine porterà Sylvia a condividere il proprio panico per quello che sta accadendo in Germania con il marito, con il desiderio grande di potere finalmente guarire, e pur tuttavia consapevole del prezzo che dovrà pagare.
Francesco De Masi
Foto Mario D’Angelo