Venezia: la Biennale d’Arte per punti, una guida breve
La Biennale di Venezia è un’istituzione culturale attiva dal 1895. È la mostra più importante d’Italia e una delle rassegne più rilevanti a livello mondiale. Tutti l’abbiamo sentita nominare almeno una volta, anche se non ci siamo mai stati, non foss’altro che per quel film di Alberto Sordi che qualcuno finisce sempre per gettare sul piatto della conversazione. Noi abbiamo visitato la sezione dedicata all’arte, che si è inaugurata l’11 maggio e che si concluderà il 24 novembre. Ma come si fa a scrivere della Biennale? Questo breve articolo non sarà, logicamente, esplicativo di cosa è la Biennale, né vuole arrogarsi il diritto di giudicare un’opera mastodontica, che sia per elogiarla o per denigrarla. Qua ci limiteremo ad individuare sei aspetti positivi di quest’occasione, e quattro punti che invece individuano delle criticità della stessa.
Le cose belle.
1. L’argomento della mostra principale è tremendamente interessante: il titolo, “May you live in interesting times”, si schiude su un mondo di contenuti che mai più di oggi sono stati attuali: come ha spiegato il curatore, Ralph Rugoff, le opere degli artisti selezionati (tutti viventi, tra cui tante donne) affrontano le tematiche più preoccupanti, dall’accelerazione dei cambiamenti climatici alla rinascita dei programmi nazionalisti in tutto il mondo, dall’impatto pervasivo dei social media alla crescente disuguaglianza economica.
2. ASK ME!, servizio inclusivo e indispensabile. Se non capite le didascalie, se volete approfondire la conoscenza di un artista o se semplicemente volete chiacchierare di un’opera esposta, ci sono gli studenti di Ca’ Foscari (e di tanti altri posti) pronti per raccontare, suggerire, spiegare e confrontarsi con gentilezza e disponibilità. Una splendida didattica interattiva che abbatte le frontiere tra i pragmatici e gli intellettuali, tra outsiders e insiders.
3. Sono presenti personaggi oggettivamente formidabili. Qualche nome? Shilpa Gupta, Darren Bader, Mari Katayama, Michael Armitage, Haris Epaminonda, Yu Li, Liu Wei, Alexandra Bircken, Jesse Darling. Se non li conoscete, non limitatevi a googlarli: andate a vederli.
4. Molti padiglioni sono davvero riusciti: innanzitutto, checché se ne siano sentite di ogni, il padiglione italiano curato da Milovan Farronato val bene una visita. Meritano poi di essere visti il padiglione USA (con una breve ma straordinaria retrospettiva di Martin Puryear), il padiglione della Scandinavia (incentrato sul cambiamento climatico), il padiglione dell’Israele (che riflette sulle relazioni tra opinione e libertà), il padiglione della Polonia (con Flight, una impressionante opera di Roman Stańczak) e il padiglione dell’Uruguay (con La casa empática di Yamandú Canosa).
5. Il prezzo del catalogo di “May you live in interesting times”. Se considerate che in mostra sono esposti 79 artisti, e che ci sono almeno un paio di opere per ogni artista, 85 euro per quei dieci chili di carta non sono poi così tanti. Peraltro esiste anche una versione più ridotta e sintetica che, per la modicissima cifra di 28 euro, consente comunque di portare a casa il compendio completo degli artisti.
6. La permeabilità della Biennale, che s’inserisce nella laguna con numerosi padiglioni nazionali, eventi collaterali e decine di mostre gratuite che consentono di scoprire o celebrare artisti di altre nazioni: bellissime, per esempio, la mostra a Palazzo Mora curata dall’European Cultural Centre, The Death of James Lee Byars alla Chiesa di Santa Maria della Visitazione, Pino Pascali a Palazzo Cavanis.
Le cose da rivedere.
1. L’enormità del tutto. Ci viene detto che bastano due giorni: uno per l’Arsenale e uno per i Giardini. Non è vero: se vi soffermate sulle opere, se leggete i cartelli che raccontano quegli artisti che magari non conoscete, se ogni tanto andrete in bagno, se vi fermerete per pranzare, due giorni non basteranno. Il biglietto è valido per quarantott’ore, ma non guasterebbe se garantisse l’accesso anche solo per un giorno in più.
2. La Video Art. O meglio, l’esorbitante quantità di video art presente sia nella mostra principale che nei padiglioni nazionali. Premessa doverosa: la video art è valida esattamente come tutte le altre forme espressive, e anzi tanta video art è anche straordinariamente interessante (andate a vedere No history in a room filled with people with funny names 5, del thailandese Korakrit Arunanondchai, che dura solo mezz’ora). Il problema è che la biennale apre alle 10 e chiude alle 18, e tanti padiglioni propinano video che durano anche due ore. Ergo, exiguum temporis habemus. E poi il confine tra video art e film, in questi casi, diventa davvero sottilissimo.
3. Internazionalità o esterofilia? Escludendo i padiglioni nazionali, limitandosi ovviamente a May you live…, incontrerete diciassette statunitensi, sei francesi, quattro cinesi, tre tedesche, tre inglesi, tre giapponesi, tre coreane (del sud), tre indiane, due italiane (ovvero il 2% del totale: la Favaretto e Ludovica Carbotta). Suddividendoli per continente di provenienza scopriamo che molto spazio (forse troppo) è stato lasciato ad asiatici e nordamericani. Ognuno ne tragga le conclusioni che preferisce.
4. Gli italiani de Le vacanze intelligenti, quelli che si comportano come Remo e Augusta Proietti e che potrebbero tranquillamente evitare. Quelli che ridono sotto i baffi perché Lara Favaretto ha installato un’opera di vapore sul soffitto del padiglione centrale dei giardini, o i maschi eteronormati che sghignazzano apertamente di fronte alla Eva di Alexandra Bircken. Possiamo fare a meno di tutto ciò, grazie.
Davide Maria Azzarello