Venezia: Georg Baselitz racconta Emilio Vedova
Giulio Carlo Argan diceva che per riassumere tutta la produzione di Emilio Vedova bastava ricorrere a una massima che recita più o meno così: qualunque cosa accada nel mondo mi coinvolge e mi sconvolge. Da lì, poi, il noto storico e politico del secolo scorso sviluppava il suo pensiero critico: secondo lui, Vedova non era un impulsivo, come si potrebbe pensare guardando al dinamismo delle sue opere; si trattava invece di un uomo molto colto e riflessivo che aveva essenzialmente proposto una revisione dell’esperienza cubista, individuabile sia nelle grandi tele sia nei bellissimi plurimi realizzati dagli anni Sessanta in poi. Certo, è assai riduttivo rinchiudere tutta la ricerca di Vedova in queste poche righe, ma di sicura questa prospettiva arganiana ci aiuta a tracciare degli assi lungo i quali può evolversi una parte dell’interpretazione di questo artista veneziano così acuto e, per certi versi, così insuperabile. Per verificare quest’idea, comunque, è sufficiente recarsi alla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, dove in questi giorni, a cent’anni esatti dalla nascita del maestro, è esposta una gradevolissima selezione di teleri degli anni Cinquanta, Sessanta e Ottanta. Siamo a Dorsoduro, lungo le Fondamenta Zattere ai Saloni, a due passi da Santa Maria della Salute. Qui Vedova aveva il suo studio, che ora è stato ristrutturato assieme a una parte dell’attiguo Magazzino del Sale per ospitare la Fondazione, presieduta da Alfredo Bianchini e curata da Germano Celant. La ristrutturazione, peraltro, ultimata una decina d’anni fa (poco tempo dopo la morte di Vedova), ha visto il coinvolgimento di Renzo Piano, che era amico dell’artista e che ha voluto rendere unico il luogo tramite un progetto piuttosto audace: un nastro di ferro che scorre lungo tutto il soffitto del magazzino e al quale si possono appendere le tele, di modo che le stesse scorrano davanti agli occhi del visitatore.
La mostra – inaugurata il 18 aprile e visitabile fino al 3 novembre – s’intitola “Emilio Vedova di/by Georg Baselitz”, perché è stata curata dal collega tedesco, che peraltro fino al 6 di ottobre sarà esposto alle Gallerie dell’Accademia in Campo della Carità. E non è un caso, scrive Bianchini nel catalogo (ed. Marsilio), ma una storia che viene da lontano. Nel 1963 Vedova […] raggiunge Berlino, politicamente divisa tra est e ovest, ancora alla ricerca di una identità e di moduli urbanistici per una ricostruzione anche fisica del suo territorio. Vi si ferma due anni […]. E tra tutti gli artisti che conosce, c’è anche un giovane e sconosciuto Baselitz. Negli anni, i due si incontreranno spesso in giro per l’Europa, e costruiranno un rapporto di stima reciproca che diventerà una vera e propria amicizia.
La curatela del pittore sassone, comunque, con buona pace dell’architetto genovese già citato, non prevede l’utilizzo del nastro. Ciononostante, l’idea del curatore è tanto semplice quanto efficace: lasciar comunicare il Vedova degli anni Cinquanta e Sessanta con quello degli anni Ottanta, di modo che gli spettatori possano rintracciare la progressione formale e contenutistica che lo ha interessato. E infatti, nell’oblungo magazzino, sulla sinistra ci s’imbatte nel Vedova più giovane, quello della serie Per la Spagna, di Scontro di situazioni e di Varsavia 1960; mentre la parete destra è dedicata ad un Vedova più maturo, che invece ha creato capolavori come Oltre e Di Umano. Alla fine del corridoio pittorico, una foto dei due artisti sorridenti a Kassel nell’82 (qui riproposta in copertina) suggerisce anche una vicinanza d’intenti che andava oltre la loro oggettiva lontananza formale. Le opere scelte, poi, sono tutte in bianco e nero: ogni tanto si può notare qua e là un guizzo evanescente di rosso, viola o giallo, ma nell’essenza tutta la mostra s’impone con la sola forza dei due colori neutri e opponibili. Questa visione, secondo il saggio in catalogo del professor Diego Mantoan di Ca’ Foscari, racconta e celebra un tema cardine del lavoro di Vedova: la continua lotta fra il Bene e il Male, dalla quale deriva inevitabilmente un’idea di pittura come azione quotidiana di conflitto a cui, in coscienza, ciascuno di noi è chiamato a rispondere. Esteticamente, insomma, la struttura curatoriale è davvero nitida, quasi icastica. Ogni opera esposta, poi, può rivelarsi davvero sconvolgente: entrambe le pareti offrono una visuale su un mondo di gesti potenti e ponderati, di segni agili guizzanti scattanti ma ricolmi di una meditazione teorica che lascia la sua impronta evidente. Certo, bisogna allenare lo sguardo: se si ha la paziente capacità di infrangere quel filtro bipolare che distingue solo astrattismi e figurativismi, Vedova ha da proporci un linguaggio informale che indaga la realtà con fare inedito, per l’epoca in cui ha operato ma anche per il mondo di oggi.
Davide Maria Azzarello