Valter Malosti porta la sua monaca di Monza al Teatro Astra di Torino
Valter Malosti, il direttore artistico della Fondazione Teatro Piemonte Europa, quest’anno ha inserito più volte se stesso nel cartellone del Teatro Astra di Torino. Tra le sue proposte, di recente ne è andata in scena una davvero sfolgorante. Trattasi del suo adattamento a tre voci per “La monaca di Monza” di Giovanni Testori, testo teatrale del ’67 che Luchino Visconti, per primo, portò sul palco del teatro Bonci di Cesena. Malosti, come erede di Visconti, si difende bene: la sua resa funziona, coinvolge e sconvolge, punge e opprime il pubblico. Le repliche sono state cinque, dal 5 al 9 febbraio. La produzione ha previsto la collaborazione del TPE, del Teatro Franco Parenti, del Teatro di Dioniso e del Centro Teatrale Bresciano.
Tutti quanti noi abbiamo memoria di quando per la prima volta, a scuola, siamo entrati in contatto con questo personaggio assurdo, angoscioso, penoso ma anche spaventoso e desolante. Col nono capitolo del romanzo storico che tutti gli studenti italiani conoscono, anche se poi magari non lo studiano come dovrebbero, lei emerge dalle pagine consunte come un rapace misterioso e conquista il suo posto nella letteratura. Ora, chiaramente i puristi del teatro ci insegnano che Testori si è basato sulla vicenda del personaggio storico, non di quello ricalcato da Manzoni. E infatti, tanto per cominciare, con Testori si parla di Marianna (poi Virginia) e Gian Paolo, non di Gertrude ed Egidio. Eppure, qualcosa di Manzoni c’è nella versione testoriana, e quindi anche nella riduzione di Malosti. Lo scrittore milanese, infatti, aveva deciso di profilare la monaca quasi come una sublime ninfa decaduta: si discorre pertanto di bellezza scomposta, di una fronte che si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa, di occhi neri che scrutavano l’interlocutore con un’investigazione superba, occhi che cercavano al contempo affetto, corrispondenza, pietà. Manzoni riferisce di un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce; si parla di svogliatezza orgogliosa, di abbandono nel portamento e di mosse repentine. E tutto questo emerge in maniera impressionante con l’interpretazione della brillante Federica Fracassi, che ha saputo davvero incarnare non solo un personaggio, ma un’idea. La sua è una monaca allucinata, folle ma di una follia indotta dalle variabili esogene che ben conosciamo; una suora isterica, quindi, ma prima ancora una donna che nonostante tutto ha sempre combattuto per rimanere fedele al suo comprensibile desiderio di mondanità, tanto da riscoprirsi sensuale persino dopo la morte, quando il suo Gian Paolo la abbraccia da dietro baciandola e toccandola con un ardore potentissimo, quell’ardore di chi agisce in segreto, di chi ama a dispetto dei dogmi e per disperazione. Sul palco insieme a lei, altrettanto eccezionali, Davide Paganini* nei panni di Gian Paolo Osio e Giulia Mazzarino nel ruolo della conversa uccisa dai due amanti. Tutti e tre hanno gestito in maniera davvero egregia le loro parti, tutti e tre hanno lasciato che lo squallore di quel tipo di società violenta e nichilista invadesse il palco per stravolgere le menti degli astanti, che chiaramente si sono ritrovati con un gran fardello di pensieri con cui fare i conti. Perché l’opera di Testori rovescia molto di quel che diamo per assodato in ambito valoriale, relazionale, parentale e religioso. La monaca di Monza – quella di Testori ma anche quella di Manzoni – è un personaggio trasversale: scavalca e scavalcherà le epoche raccontandoci le ipocrisie dei nostri sistemi, le falsità delle nostre convenzioni, l’insensatezza dei conformismi. E, di conseguenza, la monaca sarà anche un monito: finché sceglieremo di imprigionare noi stessi e gli altri nelle gabbie dorate dei moralismi e delle etichette prestabilite, saremo vittime di una pazzia autoimposta che forse si evolverà e diverrà violenza. E tutto questo si avverte anche con Malosti, la cui regia ha oggettivamente colto nel segno.
Certo, poi, va detto che lo spettacolo è riuscito anche grazie a Nicolas Bovey, che ha rinchiuso gli attori in tre loculi verticali, tre tombe di fango, cemento, polvere e vetro da cui non si esce mai: una scenografia che esalta il copione di Testori, i cui personaggi parlano da morti, spiritati dopo il trapasso, feroci e dilaniati dal rimpianto, rischiarati solo dal flebile lucore di qualche neon squallidi e azzurrini. Infine, i complimenti vanno al premio Ubu Gianluca Sbicca, che ha vestito il cast con un’intelligenza rara ed encomiabile: eccelso il costume per la monaca, didascalico il completo per Osio, pazzesca la veste della giovane conversa.
Davide Maria Azzarello
*in copertina, da destra: Federica Fracassi, Giulia Mazzarino e Vincenzo Giordano (interprete per le repliche di febbraio 2019 al Teatro Franco Parenti di Milano).