UNO ZIO VANJA: UN CLASSICO CONTEMPORANEO
C’è sempre un’attesa timorosa quando nella locandina di uno spettacolo teatrale appare la parola “adattamento”, timore che ci sia uno snaturamento del senso se non addirittura uno scempio della struttura originaria e del suo significato, giustificata da incomprensibili sperimentazioni.
Uno Zio Vanja in scena al Teatro della Pergola di Firenze fino al 4 febbraio fa svanire tutti i timori; basta il solo aprirsi del sipario, bastano le prime battute, per rendersi conto che l’adattamento di Letizia Russo è meraviglioso e superbo perché non solo riesce a conservare lo stile tragicomico del quotidiano della visione cecoviana, ma l’attualizza e lo dilata quasi a completarlo e arricchirlo, esaltandone così la straordinaria attualità creativa.
In questa nuova versione di Zio Vanja l’azione è ambientata non più nella campagna russa di fine ottocento, ma in un teatro di una qualsiasi provincia – che pensiamo italiana – semidistrutto dal terremoto e che zio Vanja assieme alla nipote Sonia ha amministrato con scrupolo e abnegazione per anni versando tutti i guadagni al cognato, illustre accademico, padre di Sonia e vedovo della defunta sorella. Unica amicizia nella vita grigia e monotona di Vanja è il medico Astrov, amato senza speranza da Sonia. L’arrivo del professore con la seconda moglie, giovane e bella, è come un vento maligno che frantuma quell’immobilismo borghese, quel continuo lamentarsi sulle occasioni perdute di quelle vite sospese che a furia di pensare hanno rinunciato ad agire, commettendo per dirla con Borges, il peggiore dei peccati che un uomo possa commettere: non essere stato felice. Per un attimo, solo per un attimo sembra che l’antipatia verso il tedioso professore, pieno di acciacchi e di pretese e lo scompiglio sentimentale creato dalla pigra, indolente e splendente Elena possano portare gli altri protagonisti a un minimo di vitalità e abbandonare il permanente grigiore dei loro giorni. Ma è solo e soltanto un temporale estivo, uno scoppio maldestro di rivoltella, un’occasione in più per ricadere nel ridicolo e sottolineare l’incapacità di ognuno di portarsi verso la dignità del vivere, rompendo finalmente le sbarre di quella gabbia di autocommiserazione nella quale sciupano il tempo dell’esistere.
Vinicio Marchioni, così umano nella sua rabbia e nella sua solitudine è un insuperabile Zio Vanja, così come bravi oltre misura sono tutti gli altri interpreti, da Francesco Montanari il dottore, Milena Mancini la bella Elena, Lorenzo Gioielli il professore, Andrea Caimmi, Alessandra Costanzo, Nina Raia.
Belle le scene di Marta Crisolini Malatesta, di quell’albero sullo sfondo che tra le macerie sfiorisce e rifiorisce e accompagna con l’andare delle stagioni la speranza di una felicità da venire, espressa in maniera dolorosa e struggente da Nina Torresi, la nipote di Vanja che nel suo monologo, forse uno dei più belli in assoluto nel teatro degli ultimi anni, si chiede – e ci chiede – vivendo finalmente un tempo lungamente sognato . “… ma tu, lo ricordi il dolore? ”
Francesco De Masi
Foto di Valeria Mottaran