Un’altra recensione su La lettera di Paolo Nani
Ci sono spettacoli che evaporano dopo qualche replica, senza lasciare traccia. Ci sono poi delle occasioni teatrali che, nel bene e nel male, attraversano lo spaziotempo lasciando ben più che una traccia. Vent’anni fa, Paolo Nani e Nullo Facchini hanno inventato La lettera, che ormai è un classico della comicità italiana conosciuto però un po’ ovunque nel mondo: Austria, Brasile, Finlandia, Russia, Ungheria, Slovacchia, Turchia, Cina, Norvegia, Giappone, e così via verso l’infinito e oltre. Si dice ci siano state più di mille repliche, si dice che persino i coreani abbiano riso. In pratica, basandosi sugli esilaranti Esercizi di stile di Raymond Quenau (tradotti per noi da Umberto Eco), Facchini propose a Nani di inventare una sequenza recitata che poi avrebbero reinterpretato attraverso vari moduli stereotipati. La versione basica della questione prevede che la figura sul palco entri, si sieda al tavolo, versi del vino in un bicchiere, lo beva, lo sputi, scriva una lettera, la imbusti e poco altro. Vi sono poi quindici varianti dello stesso tema: la volgare, la pigra, l’entusiasta, quella horror, quella western eccetera. Alcune denotano una capacità corporale impressionante, come quando, nella fase senza mani, l’attore riesce a versarsi da bere tenendo il bicchiere fra le ginocchia mentre inclina la bottiglia usando la bocca. Altre, essenzialmente, parodiano dei miti senza tempo, come quando l’adattamento per il cinema muto si risolve in una caricatura di Charlie Chaplin con tanto di baffi a trapezio. Poche parole, un po’ di grammelot, parecchi gesti. Ora, se si googla la lettera paolo nani (o anche der brief paolo nani, brevet paolo nani e persino bir mektup paolo nani) gli articoli e le recensioni piovono sullo schermo a decine e decine. Ergo, non c’è neanche bisogno di spiegare più nel dettaglio di che si tratta, poiché in merito è già stato scritto molto. Più che altro si possono leggere di critiche positive, spesso quasi estasiate, ma effettivamente qui non c’è molto spazio per i detrattori, non tanto perché lo spettacolo sia effettivamente impeccabile, quanto perché si pone su un piano di ironia così delirante che una qualunque razionalizzazione apparirebbe futile, se non addirittura inopportuna. Il che è sconvolgente, per certi versi, perché i casi in cui la critica è inutile sono rari. Eppure eccoci qua. Ci si potrebbe domandare perché abbiamo bisogno di circostanze tanto demenziali, o perché una situazione così vacua riscuota molto più successo di rappresentazioni che davvero indagano e scavano e interrogano. Ma in fin dei conti è anche vero che è sano, talvolta, voler ridere senza riflettere; è accettabile, una tantum, ricercare un divertimento improduttivo, anche a teatro. E poi, nessuno potrà negare che tanta roba seria finisce per essere variabilmente stucchevole o comunque barbosa. Quindi, vacuo per vacuo, tanto vale ridere.
La lettera è stata ospite al Teatro Gobetti di Torino dal 21 dicembre fino ad oggi, 9 gennaio, per un totale di diciassette repliche. Ringraziamo il Teatro Stabile, che cura la rassegna, per averci concesso i biglietti. Si riparte dopodomani, con Lella Costa in La vedova Socrate, il monologo di Franca Valeri liberamente tratto da La morte di Socrate, scritto da Dürrenmatt.
Davide Maria Azzarello