Una storia “muta e sorda” ieri al Teatro Kismet di Bari
Una donna, una lingua, anzi no due lingue quella madre e quella matrigna. La prima custodita gelosamente nel cuore, nella mente e nelle viscere la seconda, invece, raccolta in un vecchio registratore ancora funzionante. Questa è la storia di Agota Kristof una donna, una mamma, una profuga, un’analfabeta.
Un viaggio a piedi nudi, senza calze, perché le scarpe sono dal calzolaio o perché troppo strette, una voce registrata, una vissuta e una raccontata; un corpo prestato per la memoria, per il ricordo di una vita rimasta orfana due volte. Sul palcoscenico pulsava tutto di Agota attraverso la magistrale e superba interpretazione di Patrizia Labianca che ben ha saputo rendere e trasmettere l’io di Agota, sofferto e sempre al limite. Il progetto e la regia di LINGUA MATRIGNA sono a cura di Marinella Anaclerio fondatrice e membro della Compagnia del Sole di cui Patrizia Labianca fa parte, la drammaturgia è tratta da “L’analfabeta” di Agota Kristof.
In scena pochi elementi essenziali, specchio dell’animo intellettuale e tormentato della Kristof, una vecchia televisione, fogli di giornali, libri, occhiali e soprattutto dizionari. Tuttavia, un oggetto scenico ha colpito l’attenzione di tutti: un registratore che in scena è diventato corpo vivo, personaggio e protagonista di momenti bui, cupi, ma anche gioiosi e ricchi d’ironia il tutto incastonato a metà tra solitudine e felicità. Le musiche creavano echi profondi, vuoti incolmabili di un animo spezzato e analfabeta, di una bambina che già a quattro anni leggeva i giornali per i nonni, di una ragazzina che aveva creato una lingua segreta cosi che nessuno potesse leggere e capire il suo diario, di una donna che ha saputo abilmente padroneggiare una lingua presa in prestito, una lingua matrigna. Ma fino a che punto le parole matrigne possono navigare l’immenso oceano delle emozioni?
Lucia Amoruso