Una ragazza lasciata a metà – Elena Arvigo esplora gli abissi strazianti dell’esistenza
Un io. E un tu. Una ragazza e un ragazzo. Una sorella e un fratello. Due opposti e complementari. Uniti dal dolore. È questa infatti la colonna portante della resa teatrale – di scena all’Out Off di Milano fino all’8 aprile – di Una ragazza lasciata a metà, potente romanzo d’esordio di Eimear Mcbride, irlandese.
Lui, investito dall’invadenza spietata di un tumore al cervello, lei scacciata, rifiutata, deprivata di ogni patria del cuore, violata e annichilita da chi avrebbe dovuto amarla. Uniti da un legame che è più del sangue. È la stretta disperata degli apolidi, degli sconfitti, che lottano con quel che hanno: il coraggio e l’incoscienza, il corpo e il sesso brandito come arma e offerto in sacrificio a un mondo che non dà scampo.
La loro storia è una caduta in un gorgo nero e disperato, che Elena Arvigo porta in scena in una forma scarnificata che è poco più di un reading, su leggii diversi in un costante peregrinare, su un tappeto di foglie accartocciate e cadute – morte – tra oggetti arrugginiti e spezzati, rifiutati e lasciati a consumarsi, proprio come le vite – semplici, banali, devastate – che raccontano.
Un vagare che sembra destinato a non avere posa, a stringersi come un cappio, inesorabilmente, per spezzare il fiato anche di chi osserva.
L’intensissima, viscerale interpretazione di Elena Arvigo è una sfida, uno strattone spietato dentro a un buio squarciato solo a tratti dai lampi di luce di quell’umanità che ancora cova, sotto la cenere di vite vinte.
Sul palcoscenico le parole del romanzo – a loro volta spezzate, incerte, frammentate, lasciate a metà, in cui la punteggiatura segue regole proprie – prendono la resa plastica di una interpretazione che già dice tutto nella forza e insieme nell’astrazione che esprime, quella di chi è già in un altrove in cui non può più essere raggiunto. Che non ha più dei ai quali votarsi.
Suggestiva e fortemente simbolica la messa in scena, curata anch’essa dalla Arvigo, nella cui terrosa e angosciosa atmosfera risuonano – tutt’altro che lontani – gli echi di Sarah Kane e del suo 4.48 Psychosis, che proprio l’attrice genovese ha portato in scena di recente. Ogni dettaglio, accuratamente soppesato, contribuisce alla brutale, lancinante, ossessiva ripetizione del dolore, che sembra dilatare anche nella percezione di chi osserva il tempo e lo spazio, giocando a privare anche lo spettatore della possibilità di una pace, portandolo a empatizzare non sul filo della commozione del dramma, ma su quello piuttosto della speranza, alla fine, di un allentarsi della tensione purchessia.
Un monologo di pregevole qualità tecnica che chiede a chi lo interpreta un talento non di molte per riempirsi di senso e sfaccettarsi come merita, e un coraggio ancor meno comune sulle scene italiane di oggi nel portare in scena un mondo di una forza così devastante, che esige preparazione e disposizione all’ascolto. Una immersione che porta in sé la bellezza fulgida che solo gli abissi più profondi possono svelare. E da cui – a meno di non rendersene del tutto impermeabili, come è istintivo fare quando si viene colpiti – è impossibile riemergere pacificati, prima di aver placato la fame d’aria.
Chiara Palumbo
Foto di Manuela Giusto