Una penultima e silenziosa tempesta su Torino: Wagner al Teatro Regio.
La stagione del Teatro Regio di Torino sta per concludersi: manca solo il Trittico di Puccini, dal 21 giugno. Noi abbiamo avuto il piacere di assistere al penultimo appuntamento, andato in scena dal 17 al 26 maggio: si tratta de L’Olandese Volante, diretto da Nathalie Stutzmann per la regia di Willy Decker, romantica e decadente, ripresa da Riccardo Fracchia. Scene e costumi: Wolfgang Gussmann. Luci: Hans Tölstede.
Il tema principale di quest’opera di Wilhelm Richard Wagner, vale a dire la redenzione per mezzo dell’amore, viene affrontato suggerendo a piè sospinto una simbologia quasi meccanica; in cui ogni gesto, ogni nota e persino i colori, tutto insomma concorre ad un vorace bisbiglio ai cuori degli spettatori, ai quali vengono proposte immagini e situazioni e magie tanto minimaliste quanto grandiose. Sembra di vivere un unico lungo, profondo respiro psichedelico; tanto concreto (nell’estetica) da risultare chimerico e tanto dissonante rispetto ai valori degli astanti da pretendere d’essere osservato con l’anima e non con gli occhi e forse, persino, neanche con le orecchie. L’atmosfera, il 17, sapeva di occulto e prodigio. Il canto in tedesco, al quale tanti spettatori non sono avvezzi, ha catalizzato il pubblico andando a recuperare la sensorialità nella sinestesia.
Der fliegende Holländer, presentato a Berlino nel 1844 (e in Italia, a Bologna, solo nel ’77), è il primo capolavoro wagneriano in una fase giovanile che si concluderà col Lonhengrin, nel ’50. Originariamente in atto unico, con la firma del compositore su spartiti e testi, oggi viene eseguita in tre atti, poiché nell’opera assoluta e totale che inseguiva lui come i secessionisti viennesi (la Gesamtkunstwerk) non ci crediamo più*. Nessuna struttura chiusa: la musica è un unicum melodico che, proprio come il vento, non ha inizio né fine, bensì esiste in un cerchio di motivi, presenti già dall’ouverture, che ritornano e tornano ancora. La trama si basa sul folklore nordico del Vascello Fantasma, e dell’uomo destinato a vagare per mare per l’eternità. A causa di una bestemmia.
Le figure essenziali sono Daland, avido navigatore norvegese; sua figlia Senta, la vera protagonista, veicolo della redenzione di cui si accennava pocanzi; e infine il marinaio fantasmatico, l’olandese, che una volta ogni sette anni ha il permesso di attraccare per cercare una moglie sulla terra ferma e così liberarsi dalla maledizione.
L’allestimento del Regio non è nuovo: nel 2000 è stato creato per l’Opéra National di Parigi e dodici anni fa è arrivato a Torino. L’operazione estetica e sui contenuti, comunque, rimane originale ed evocativa nonostante gli anni che passano, e questo grazie ad alcune felici intuizioni. Il mare, per esempio, può sembrare assente: bisogna cercarlo negli interpreti e nei movimenti corali, nel cordame attraccato dentro casa di Daland, che dall’interno è storta come una nave oscillante; e ancora nei parquet bianchi come la spuma, e nelle vele rosse che s’intravedono oltre l’abnorme portone e la finestra. Il dentro coincide con un fuori che ognuno può immaginare a suo modo: Decker, nel libretto di sala, sostiene l’impossibilità di rendere in maniera soddisfacente, in teatro, concetti come la tempesta, la navigazione, il vento dello spartito; si può solo riferire alcuni significati nascosti. Al di qua della redenzione infatti c’è una giovane donna, Senta, innamorata di un essere che non conosce ancora, e già dall’inizio fissa il ritratto dell’Olandese tendendolo peraltro in grembo e dando le spalle a chiunque. C’è una trama, e si cerca di seguirla, ma attraverso le dichiarazioni dei personaggi emergono soprattutto icone incandescenti che sanno contemporaneamente di gotico, di ballata, di danza macabra immaginata. E la gestione dello spazio scenico contribuisce alla realizzazione di questo processo: tutto avviene in casa di Daland, in uno spoglio stanzone di legno bianco in prospettiva angolare, asimmetrica e inclinata in basso, come se da un momento all’altro potesse scivolare rovinosamente sull’orchestra. A destra un portone gigante; a sinistra, un quadro di onde scompare per diventare una finestra chiusa. È un habitat senza fronzoli, e da qui emerge una bellezza di geometrie distorte ma essenziali, pulite. Complesse, come le emozioni che ci muovono. C’è un’immagine indimenticabile, per esempio, che spicca fra tutte nell’alternanza di cori (maschile e femminile): all’inizio del secondo atto, tutte le filatrici, mentre discutono, cuciono un unico grande lenzuolo bianco ovale com’è ovale la disposizione delle sedie su cui cantano. Un’altra scelta degna di nota riguarda il finale: Senta non si getta fra le onde, ma si pugnala. L’ossessione, di cui lei è ambasciatrice indiscussa, sfocia così. Conta di più, quindi, il desiderio di redimere o il delirio?
Dal punto di vista musicale, ci sono molti punti di forza: una direttrice che sembra voler rimodulare l’aura di mistero wagneriana; il coro di Trabacchin col Coro Maghini, che si impongono con pari autorevolezza rispetto agli interpreti principali. Johanni Van Ostrum è una Senta impeccabile, mentre di Brian Mulligan si ricorda con piacere la gestione del canto; Daland è interpretato da Gidon Saks, che purtroppo non stava molto bene, mentre Erik è il tenore Robert Watson, molto abile nel rendere lo sconcerto per il rifiuto della protagonista.
*Ma ci credeva Gianandrea Noseda: Una colata di lava non si può interrompere. Questo era anche il desiderio di Wagner, che non riuscì mai a vedere realizzato.
Davide Maria Azzarello