Una moltitudine di voci nell’abisso di Davide Enia
“In mare ogni vita è sacra. Non ci sono colori, etnie, religioni, è la legge del mare, non un semplice mantra, ma un atto di devozione”. Ed è nelle acque che bagnano la bruna, piatta Lampedusa, travolta dalla luce e dalla salsedine, che comincia il racconto-spettacolo di Davide Enia, “L’ Abisso” – tratto dal suo romanzo “Appunti per un naufragio” – e ospite lunedì 10 ottobre della rassegna Performazione Sociale, in cartellone della BiennaleMartelive, allo Spazio Rosseliini di Roma.
Storie di migranti che inseguono il sogno di una vita migliore, processioni smarrite e impaurite di bambini, cadaveri sistematicamente ritrovati tirando su le reti, sommozzatori di stazza (rescue swimmer), comandanti di capo vedette in aperto Mediterraneo e, ancora, gli sforzi immani di guardia costiera, medici, residenti, la malattia del caro zio Beppe, il disgelo di una Siberia sentimentale tra padre e figlio. Tasselli di un mosaico dalla potenza disarmante, attraverso cui Enia descrive il privato e il pubblico, il dolore e la misericordia del dono più grande che ci è stato fatto: l’esistenza umana.
Dopo anni trascorsi a recuperare testimonianze dirette sull’isola, la narrazione de “L’Abisso” ci svela come oggi Lampedusa sia una parola sempre più contenitore di opposti: migranti, naufragio, solidarietà, disperazione, strazio, miracolo, morte, rinascita. Nomi urlati alla televisione, statistiche apprese dai giornali gettano ombre sulle persone, su quei corpi in carne ed ossa, i veri protagonisti di un’inimmaginabile apocalisse in terra. L’Abisso restituisce dignità e valore a questi uomini, donne, vittime di atroci violenze e privazioni, costretti ad un esodo di massa dalla vicina Libia. Rimette in discussione preconcetti, categorie, pensieri stessi e, attraverso la mediazione artistica, si fa strumento di una moltitudine di voci. Per Enia, però, Lampedusa è soprattutto l’estensione della sua casa, ossia la Sicilia. La sua condizione dello sguardo ha lavorato sul limite, sulla frontiera, là dove c’è scambio, movimento, confusione. Fin dalle prime battute, incoronate dalla partitura musicale affidata a Giulio Barucchieri, le cui note riecheggiano litanie di pescatori, canti popolari e rosari di preghiere di un’epoca quasi mitica e rarefatta, si avverte lo sbigottimento di fronte allo sbarco e agli annegamenti, come di fronte a un’esperienza che rimette al mondo, cambiando nettamente la percezione delle cose. Quelli che incontra sul proprio cammino Enia sono esseri umani che si portano dentro un intero camposanto. I ricordi passano in rassegna i corpi zuppi d’acqua e sale, simili a spugne; i volti tumefatti, i muscoli, gli organi deformati, gli svenimenti continui, gli ustionati. I gesti dell’attore sono misurati, precisi, in grado di restituire le emozioni vissute con una chiarezza espositiva incredibile. Utilizza diversi registri stilistici, dal dialetto che è la lingua di nominazione prima, ai respiri, ai sussurri frammisti ai silenzi, fino a toccare le vette più alte con il ‘cunto’, un canto misterioso e arcaico, in cui si aggruma tutto l’evento traumatico della morte. Sembra di vederli gli occhi delle donne sopravvissute, pozzi in cui giace lo spaesamento più totale. La maggior parte di loro ha subito stupri, trattate peggio degli animali, trasformate in giocattoli finché non si rompono. Ci si sente impotenti ascoltando una realtà così lancinante, ci si chiede cosa si possa fare, e non si ottiene risposta, come di fronte alla notizia del male incurabile che colpirà lo zio Beppe. Risalgano a galla costernazione, rabbia e perplessità. “Se queste fossero davvero missioni a carattere umanitario, – dice Enia- quando ci sono delle morti si potrebbe pensare di raccogliere informazioni con i sopravvissuti per ricostruire almeno il nome di chi è deceduto, ma non viene fatto. C’è una precisa volontà di intelligence e manca quella prettamente umanitaria”. Il rapporto tra vivi e morti, che è poi uno dei dati fondanti del teatro, scandisce il ritmo di tutto il racconto, vivi e morti in una perenne logica di relazioni. Ed è proprio in virtù di ciò che si legge il legame di Davide con il padre, filtro attraverso cui riuscire a raccontare l’innominabile, a cucire parole insieme ai lampedusani, recuperando un fortissimo senso comunitario.
Prima o poi nascerà un’epica di Lampedusa, proprio dalle migliaia di persone transitate dell’isola che racconteranno la loro storia, di cosa voglia dire vedere all’improvviso il mare dopo giorni di buio pesto. Ci descriveranno cosa significa approdare sulla terraferma dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria. Ci diranno dei centri in cui sono stati zittiti nei loro diritti e nelle loro ragioni, del riscatto dalla condizione di “nuda vita” che per anni li ha perseguitati. E, più di ogni altra cosa, ci ricorderanno le nostre origini, perché noi come loro siamo figli di Europa, la donna che nel mito greco ha attraversato il mare per fuggire via dalla sua città. Noi come loro siamo figli di una traversata in mare.
Diana Morea