Una dedica all’Altrove nello storico lavoro di Enzo Moscato
“Lo sai di chi è il compleanno oggi, lo sai di chi è… ?”. Lasciano un’eco straziante le parole che Enzo Moscato ripete di continuo alla fine dello spettacolo “Compleanno”, storico lavoro tornato in scena al Teatro India di Roma dal 28 settembre al 2 ottobre. Parole malinconiche che abbracciano, interrogano, fanno male, ma che non riesci più a togliere via dalla testa. Ciò che poco prima è stata traboccante visione, ora è già nostalgia.
Si può dire che per quelli come Moscato, il teatro è una vocazione, un fatto sacerdotale, capitato come destino prima in qualità di scrittore, e poi anche come performer. Il teatro deve tendere verso la metafisica. Pirandello ce l’ha insegnato. E “Compleanno” è un grande esempio di questo, lo si può leggere come si vuole, come una prova di autore-attore, e dal punto di vista dei contenuti, come una domanda rispetto a questo altrove, questo aldilà, questo oltre il limite. Contemporaneamente è anche un’altra cosa nella vicenda dell’artista napoletano, strettamente connessa alla sua cultura teatrale, che è stata farsa e soprattutto narrazione. È un intimo atto di dolore per una scomparsa, dichiarata al centro della scena dalla sedia vuota, avvolta da un tulle rosso. Il vero protagonista di “Compleanno” è l’assenza rivolta alla compianta figura di Annibale Ruccello, morto a soli trent’anni in un tragico incidente stradale, e poi l’Assenza con l’A maiuscola che ci rimanda ai grandi temi su questo del Novecento (Pinter, Artaud, Genet, Testori).
Al lato sul palco vediamo un tavolo-altare imbandito con sedie poste come per un colloquio. Sulla tovaglia, cinque rose rosse finte, bottiglia di spumante già stappato, e una coppa di metallo. Nei pressi della coppa dardeggiano diademi di stoffe colorate, orecchini spaiati, un piccolo specchio e un rossetto. Tutto lascia supporre si tratti di una festa nella cornice di una Napoli orientaleggiante in cui le lingue si mescolano, così come i temi e i riferimenti culturali. Mancanza e delirio si intrecciano, suoni e parole sgorgano per colmare l’inanità dell’esistenza. Ma si tratta anche di un esercizio quotidiano di elaborazione del lutto. Lo testimonia il testo di un “ante Compleanno”, dove un giovane attore, un emozionante Giuseppe Affinito, racconta cosa voglia dire perdere qualcuno che ci lascia giovani, e come la stessa morte preservi da ulteriori dolori dovuti alla scomparsa di persone che si amano. Ieratica è poi l’entrata in scena di Moscato che reca tra le mani un vassoio ricolmo di candeline accese, indossando un ampio kimono nero e avendo un lungo nastrino rosso legato alle dita. Un officiante del rito della memoria che dà subito accesso all’anima: “Dedico a Ines, questo canto. A Ines, al teatro lirico, alle sue bambole. E anche agli storpi, con una striscia di stelle sulla testa calva, fino alla nuca. E dico in my heart forever”. Dal suo leggìo evoca i tanti spiritelli accorsi in un fantasmatico convivio: Ines e Cartesiana, Bolero, Donna Clotilde e Luparella, Rusinè, Spinoza, i sorci e i gatti, i maniaci, gli inquisitori, i razziatori di pistole. Perché in un compleanno si sorride e si piange, come nella vita, mentre i Gipsy Kings cantano in sottofondo: “Tú quieres volver/Y no te veo más/Tú quieres volver/Y no me encuentro nada…”. “Vuoi tornare indietro/e io non ti vedo più/Vuoi tornare indietro/e io non riesco più a ritrovarmi… “. Un soliloquio impressionante scritto come se il protagonista fosse il figlio di Beckett. Ed è strano imbattersi nel creolo napoletano di Moscato, una lingua immaginifica, così vorticosa e carnale, interessata da un movimento ascensionale ed elicoidale, dentro questa forma azzardata anche dal punto di vista comunicativo. E a proposito del canto, Leo de Berardinis di Moscato ha scritto, nell’introduzione alla Quadrilogia di Santarcangelo (Ubulibri, 1999): “(…) Il desiderio del tuo fragile corpo di attore è il desiderio di una canzone nuova, di un canto nuovo, spremuto dalle macerie, dal dolore e dal sorriso; un desiderio che è oltre a ciò che avviene sulla scena, è intorno al tuo corpo, e in quei momenti in cui fai in modo che anche gli altri, gli spettatori, si pongano in ascolto / in prossimità del silenzio.”
La formula di “Compleanno” è sempre la stessa da più di quarant’anni, ma l’animo e le emozioni sono quelle presenti, cambiano i contesti, cambia il pubblico, eppure lo spettacolo si fa e si brucia costantemente. Forse perché Enzo Moscato appartiene a quel raro genere di artista, ormai in via di estinzione, che non seduce lo spettatore ma lo infetta. Ed è solo infettando che si trovano persone che si illudono di non poterne fare più a meno della tua arte. Questo tipo di attori trasmettono il contagio, quel qualcosa che non riesco a togliermi dalla testa, con cui magari non sarò d’accordo, che apparirà immorale, ma che tuttavia non dimenticherò. È questa la cellula fondamentale che regge in piedi l’economia di una progressione così assurda che è il teatro. E “Compleanno” ne fa parte a tutti gli effetti.
Diana Morea