“Un viaggio chiamato psicoterapia”: il dono di diventare se stessi – Intervista a Alessandra Parentela e Michela Longo
Succede, nella vita, di affrontare dei momenti difficili, da cui a volte è difficile rialzarsi. Così capita che, seguendo il proprio sentire, si scelga di iniziare un percorso di psicoterapia per avere un supporto che possa aiutare a ritrovare l’equilibrio perduto. È ciò che viene raccontato nel libro “Un viaggio chiamato psicoterapia. Storia di un percorso difficile, emozionante e a tratti ironico” (CTL Editore, 2020, pp. 154, euro 14) scritto a quattro mani dalla psicoterapista Alessandra Parentela e dalla sua paziente Michela Longo. Un legame profondo, quello tra Doc e Miki, per una storia che aiuta a capire il percorso psicoterapeutico, di quanto sia importante e di quanto la volontà si ciascun paziente a guarire sia fondamentale, questo nonostante tutti gli ostacoli che presentano periodicamente. Abbiamo fatto qualche domanda alle autrici per approfondire ulteriormente i contenuti e non solo.
Domande rivolte alla dott.ssa Alessandra Parentela (Doc)
Il percorso di Miki è stato intenso, sia dal punto di vista del rapporto con Lei, sia per le problematiche che sono state affrontate. Del suo primo incontro con Miki, cosa le è rimasto?
Miki dal primo incontro mi ha insegnato a mettermi continuamente in discussione sul lavoro che stavo impostando con lei e questo mi ha permesso di riuscire a tirar fuori nel modo più consono ed adattabile gli strumenti di lavoro più giusti per lei. Mi ha tirato fuori il meglio ed riuscita a dare alla terapia, e quindi a me, quegli stimoli che sono necessari perché la relazione possa funzionare. E solo creando una relazione emotiva significativa che la psicoterapia ha successo. Così, per rispondere alla domanda, dal primo incontro con Miki mi è rimasta la grande empatia e condivisione nata lungo il percorso poiché all’inizio c’è stata la difficoltà di farle capire che in quel piccolo studio in cui veniva una volta alla settimana era nella relazione con me che doveva mettere in gioco tutta se stessa, affidandosi, confidandosi e fidandosi. Solo così si poteva stabilire quella relazione umana che avrebbe portato alla crescita di entrambe.
Che tipo di crescita interiore ha visto in Miki durante il percorso di psicoterapia?
All’inizio quello di Miki era un bisogno di aiuto perché in quel momento sentiva di non farcela da sola. Si era persa o forse distratta ma aveva ancora dentro di sé quella gran forza e tenacia che la caratterizza tutt’oggi. Una forza che io avevo percepito dal primo incontro ma che lei non vedeva ed è così che lungo il “viaggio” ho cercato di tirarle fuori doti come la tenacia, la curiosità, la forza, la sensibilità e il forte senso di responsabilità che aveva un po’ perso per strada. La crescita interiore che è avvenuta in Miki è stata quella di sviluppare una maggior capacità di prendere coscienza e consapevolezza di quel che sente e che pensa, di osservare le reazioni emotive a ciò che le accade, di capire quali cose la fanno sentir bene, quali la spaventano e quali la affondano, le cose che le danno vergogna e la fanno arrabbiare e quali sono i desideri che la portano a comportarsi in un certo modo. La paura però le bloccava questa consapevolezza. Una paura che non dava spazio alle altre emozioni e che andava quindi mitigata. La vera crescita interiore di Miki si è basata, come dice Proust, “in un viaggio di scoperta non per vedere nuovi mondi ma per cambiare occhi”.
I pazienti che iniziano un percorso terapeutico intendono uscire da uno stato di malessere e disagio, pensa che lo stato problema sia sottovalutato per la sua influenza psichica?
Oggi sempre di più abbiamo capito come il malessere e il disagio influenzino lo stato psichico. Infatti la scienza ci conferma come spesso le tensioni emotive si riflettano nei problemi del corpo. Stress, frustrazioni, emozioni negative, ansia e depressione possano essere somatizzati e tradursi in disturbi somatici di varia gravità. La psiche ha un ruolo determinante in ogni patologia medica.
Domande rivolte a Michela Longo (Miki)
Racconti il tuo percorso terapeutico in modo molto sincero, rivivendo i momenti più ardui: non hai mai pensato di mollare o, all’opposto di non poterne più fare a meno?
Un milione di volte ero lì lì per mollare… è che poi sapevo che se avessi realmente mollato non avrei avuto una seconda possibilità, non me la sarei data, per come sono fatta. E pertanto mollare avrebbe significato fallire su tutti i fronti. Mi sentivo in trappola perché mi pareva di stare sempre peggio, ma poi ho stretto i denti, in verità ho dato davvero fiducia alla mia compagna di viaggio, e da allora ho iniziato a vedere i frutti del lavoro. Sono grata a me stessa per non aver mollato. Ho anche pensato di non poter più fare a meno della psicoterapia, ma in realtà se essa ha davvero funzionato è proprio perché mi ha insegnato a camminare contando solo sulle mie forze. Ed è quello che è successo, perciò la sua conclusione è avvenuta in modo del tutto naturale.
Pensi che senza gli errori che hai riconosciuto lungo il tuo percorso di psicoterapia saresti arrivata a essere ciò che sei oggi?
Non parlerei propriamente di errori. Diciamo tentativi. Tentativi per ritrovarmi e tornare a essere ciò che sono. Penso che senza la psicoterapia non sarei come mi sento oggi, quello sì. Ecco perché anche nel libro parlo di “dono” riferendomi al fatto di essermi regalata l’opportunità di diventare ciò che sono. È stato un viaggio difficile ma altrettanto bello, visto anche il risultato positivo che ha portato per la mia vita.
Usando una metafora, che fiore era Miki prima della psicoterapia e che fiore è diventato ora?
Come mi ricorda il mio tatuaggio, potrei definirmi un fiore di loto. In verità, sia prima che dopo la psicoterapia. Con la differenza che prima ero un fiore di loto su cui aveva avuto la meglio il fango in cui è nato, metafora del mondo che ci circonda e delle cose negative da cui ci facciamo sopraffare durante la vita (perdite, paure, rabbia, disillusioni ecc.). invece dopo sono diventata un fiore di loto che è riuscito ad emergere dal fango e che anzi, nonostante esso, oggi riesce a far prevalere la sua vera essenza.
Domande a Doc e Miki
Il titolo del libro vede il percorso terapeutico come un viaggio, ma quanta aspettativa è insita nel paziente all’inizio del percorso?
All’inizio del percorso, se il paziente ha un’aspettativa positiva sulla cura, è facile che possa arrivare a trarne molto beneficio. L’aspettativa terapeutica gioca un ruolo importante sia nell’ambito della salute fisica sia in quello della salute mentale.
Come è nata l’idea di mettere nero su bianco questa storia?
Il nostro libro trae la sua origine dalla relazione profonda ed unica tra terapeuta e paziente. L’idea del libro nasce in modo molto naturale perché rappresenta l’unione perfetta di due intenti complementari: da una parte l’obiettivo di Alessandra di scrivere un libro innovativo sulla psicoterapia, dall’altra il tentativo di una paziente tra le più difficili che lei abbia avuto di comprendere a fondo il percorso psicoterapeutico attraverso la scrittura di dettagliati resoconti di ogni seduta. E un giorno ci siamo dette che avevamo tutti gli ingredienti per poter scrivere un libro insieme. Il nostro obiettivo è di voler accostare le persone alla psicoterapia, addentrandole in un vero percorso in cui potersi immedesimare, sminuendo quell’alone di vergogna e mistero che ancora c’è dietro al bisogno di rivolgersi allo psicoterapeuta. Chi va dallo psicoterapeuta ha problemi come li hanno tutti. La differenza con chi non ci va è che chi inizia un percorso terapeutico si mette realmente in gioco e vuole iniziare a risolverli. È un libro che parla di esistenza e si interroga sul senso della vita. Il messaggio più forte che vuole dare è: nelle relazioni umane si trova la risoluzione di qualsiasi conflitto, perché è nella condivisione che si trova la felicità.
Come avete vissuto il 2020, che ha messo a dura prova un po’ tutti dal punto di vista psicologico?
Il 2020 sarà ricordato per sempre come l’anno del Coronavirus. È un anno che ha avuto un grande impatto su ciascuno di noi. Ha cambiato completamente le nostre vite e ci ha catapultato di fronte alle nostre paure. Tutto chiude e ci inventiamo un nuovo modo di stare al mondo, dobbiamo essere in grado di proteggerci e reinventarci. La paura è tanta e la normalità viene improvvisamente interrotta. Il COVID ha messo l’uomo davanti allo specchio, spogliandolo di qualsiasi costrutto mentale e classismo sociale, facendogli capire che non esiste differenza alcuna di fronte al dolore. Per me e Miki è stato un anno di gioie e dolori perché da una parte c’è stata questa bellissima esperienza di condivisione del libro e dall’altra il terrore di ciò che ci può succedere. Un anno carico di emozioni e di grandi cambiamenti che ci ha fatto capire che nei momenti di crisi vanno fatte delle scelte. Scelte di vita che ci hanno portato a lavorare in smart working, a comprare un cane per riuscire ad imparare che la vita è fatta di semplici cose, e che nonostante tutto possiamo godere di quei piccoli momenti che essa ci offre. I tempi si sono dilatati, sono rallentati e nonostante il gran timore e la grande paura che questo periodo riserva, c’è la voglia di andare avanti e vivere in una modalità più consona e adattabile all’essere umano. La cosa che in assoluto ci ha fatto riflettere è come la sofferenza, quando condivisa, si polverizza. Quindi se possiamo dare un messaggio positivo, questo è di coltivare le vere relazioni perché sono le uniche che rimangono e ci fanno sopravvivere.
Irvin Yalom è citato nel libro, oltre ai suoi libri di psicoterapia avete avuto modo di leggere anche i suoi romanzi?
Assolutamente sì! Molto belli, scritti in modo magistrale, ti incollano alle pagine. Yalom ha una vera capacità di rendere semplice e alla portata di tutti anche i concetti più difficili. Si trova in questo la sua maestria secondo noi.
Scrivendo questo libro sono emerse nuove consapevolezze da entrambe le parti?
Doc: la scrittura mi ha aiutato a pensare e a mettere nero su bianco cosa si prova quando si intraprende un percorso di psicoterapia. Più si scrive, e più si vorrebbe scrivere. Lo scrivere mi ha aiutato ad allenare il cervello e a sentirmi ancor più presente in quello che è un percorso che potrebbe servire a chiunque.
Miki: per me scrivere è stata una scoperta. Una bella scoperta. C’è stato infatti un momento in cui la mia terapia non proseguiva perché non riuscivo a parlare durante le sedute. Doc mi disse: “scrivi i tuoi pensieri, che poi li condividiamo”. E così ho iniziato a mettere nero su bianco le mie più profonde riflessioni. E non ho smesso di farlo per quasi tre anni. Per me scrivere è stato per così dire salvifico. Mi ha aiutato a mettere ordine nei miei pensieri ed era un momento tutto mio che mi ha ridato la voglia di prendermi cura di me.
Roberta Usardi