Un racconto di Lucania – “Le guerre dei poveri” di Raffaele Montesano
Grazie alla rete di fortunati incontri che non mancano di crearsi al Salone Internazionale del Libro di Torino, facciamo con molto piacere un’incursione nello stand e nel catalogo di Annulli Editori. Le collane della casa editrice spaziano dai saggi di storia e filosofia alle guide storico-turistiche, dall’antropologia culturale all’erboristica ai romanzi. E proprio curiosando tra questi ultimi, eccoci conquistati dalla lettura de “Le guerre dei poveri” (Collana NarrAzioni, I^ edizione marzo 2015, pp. 236, euro 13), primo romanzo del giovane autore lucano Raffaele Montesano, che in precedenza ha esplorato i campi di saggistica, poesia e drammaturgia teatrale.
L’incipit trasporta il lettore, “zompando” per la strada insieme all’adolescente Roccuccio, nel paese di Borgo Nemone, in Basilicata, alla fine degli anni ‘70. Luogo immaginato dall’autore, ma reale fin nei minimi dettagli, simile a mille altri, perché “i paesini lucani si assomigliano un po’ tutti”. La voce del narratore proviene dal popolo, è quella di un abitante del luogo che, conosciuto fortuitamente, incominci a raccontare a noi lettori la storia della sua terra e dei suoi compaesani. Popolare è anche la scrittura, affascinante sperimentazione di un italiano ibridato con i dialetti lucani e con i costrutti tipici dell’oralità, in cui spesso viene meno anche la correttezza grammaticale, ma mai il controllo dell’operazione. I termini dialettali diventano le pennellate materiche capaci di rendere unico e così immediatamente vivido l’affresco del borgo, perché ci sono immagini che non possono essere riferite con la stessa forza traducendole in italiano.
Come la memoria, anche il flusso del racconto segue i meandri dei nessi momentanei, e si abbandona alla sottile eccitazione di riportare le mille voci del sentito dire, dell’inarrestabile pettegolezzo. L’unità della trama si rifrange così nei ritratti dei tanti nemonesi, concreti e immediati, in tutte le loro sfumature. La cornice – il romanzo di formazione che ha per protagonista Roccuccio, nel delicato passaggio alla vita adulta – racchiude un caleidoscopio di storie in cui ci si perde con uno strano senso di piacere, quello di godere di un racconto dopo l’altro: la mamma, Rosa la lattara, il padre Iuccio, morto per una disgrazia, nonna Concetta, Don Michele, il dottor Luigi detto Acconzauai e la sua storia con una monaca (niente meno), i ragazzi della sezione PCI, le loro scorribande e i primi amori, Donato il panettiere e la genealogia della sua famiglia, Seppa Trabband’, che offriva piacere in cambio di nulla… e così via fino al ritorno in paese della zia emigrante Tullina con la sua bellissima figlia Maddalena, a turbare la calma dei parenti e risvegliare le prime pulsioni del nostro protagonista, assieme alla sua voglia di riscatto.
Le terre di Lucania sono sempre lontane dal resto del mondo. Ciò che avviene al di fuori giunge nel guscio chiuso del paese come un’eco lontana, quasi che non possa riguardare mai fino in fondo la vita di chi ci campa, sempre e comunque di stenti. Tornano in mente le parole di Carlo Levi, che negli anni ’30, durante il confino ad Aliano, concepiva il suo più celebre romanzo: “Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia”.
Nel 1978 a Borgo Nemone le cose sono cambiate ma la cortina non è ancora crollata del tutto. Si fatica ancora ad affrancarsi da quel passato. La grande Storia accade – vengono evocati i nomi di Aldo Moro, Peppino Impastato, Paolo VI, Andreotti – mentre ogni giorno si combatte la propria guerra contro la povertà, e si vive di “fatica fatta solo per levarsi un poco di miseria in più da ‘n cuollo”, per poter assaporare finalmente quel progresso e quel benessere che altrove sembrano la norma. Ma forse stavolta la speranza arriva.
Quello di Raffaele Montesano è un romanzo d’esordio di grande solidità, ricco della sincerità e dell’amore di chi nei territori raccontati ci è nato e cresciuto. Le pagine sono cariche di sapori, asperità, odori, sensazioni tattili, in una scrittura evocativa che a tratti ha molto a che fare con la fotografia o con la pittura, infine col carattere teatrale, ma che non può in fondo essere altro che lingua parlata. E chiudendo il libro alla fine, continuando ad accompagnare il protagonista, ci si rende conto di fare fatica, nel lasciarsi alle spalle Borgo Nemone.
Mariangela Berardi