Un ipertesto teatrale sull’ecologia dell’attenzione: “Overload” al Teatro Gobetti di Torino
David Foster Wallace guadagna il palco e comincia a raccontare la sua vita. Dopo poche battute, uno sconosciuto lo interrompe per notificare alla platea che lo spettacolo offre – oltre al monologo di Wallace – una serie di contenuti speciali attivabili a discrezione degli spettatori stessi. In alcuni momenti strategici verrà proposto lo switch dal discorso dell’autore ad altre scenette che decontestualizzano ferocemente quanto raccontato sino a quel momento. Perché ciò avvenga, il pubblico deve dichiarare le sue intenzioni: per assistere al cambio di scena, è necessario infatti che almeno un astante si alzi in piedi. Altrimenti il focus rimarrà su Wallace. Ma cosa farà il pubblico?
Il Festival delle Colline Torinesi, dimostrandosi come sempre molto interessato alle punte di diamante della scena teatrale contemporanea, ha deciso di inserire nella sua programmazione del 2019 il vincitore del Premio Ubu 2018: “Overload” della compagnia fiorentina Sotterraneo (nata solo quattordici anni fa) è arrivato quindi sul palco del Teatro Gobetti di via Rossini. Il testo della pièce è di Daniele Villa; in scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini. Se si incappa nel comunicato stampa dell’Associazione Ubu per Franco Quadri si legge che Overload è meritevole del premio perché “affronta […] la frammentarietà contemporanea, con un linguaggio teatrale inedito, dal tratto collettivo, capace di penetrare l’oscurità suscitando al contempo il sorriso“. Il che è vero – tranne forse per l’originalità del registro drammaturgico – ma sicuramente non è tutto.
L’essenza dello spettacolo è già tutta racchiusa nel titolo: il tema cardine è proprio l’overload, il convulso sovraccarico di informazioni che il nostro mondo produce e ridistribuisce sulle nostre retine, annientando la capacità critica dei singoli di decidere cosa guardare e cosa evitare. Molto di questa occasione teatrale gira attorno al folle annichilimento che nasce dal bombardamento mediatico di icone scintillanti ma piatte, divertenti ma vuote, ammalianti proprio perché artificiose fino allo stremo. Ora, l’idea di Sotterraneo è molto intelligente, acuta, furba: non ci si limita a raccontare questa realtà alla folla, si vuole testare la capacità della gente di resistere allo switch, che silenzia il monologo di Wallace e che propone un contenuto extra forse divertente – spesso dissacrante – ma in fin dei conti ironico, di quell’ironia che è più tragica della tragedia stessa, come diceva spesso Ionesco. Quale valore aggiunto porta il contenuto extra? Perché ci sentiamo tanto attratti da argomenti altri se ancora non abbiamo finito di ascoltare cosa ha da dirci Wallace? Molto probabilmente è questo il messaggio che Villa vuole lasciare: cercate di resistere alla tentazione dello switch, perché capirete poco o nulla del discorso principale – qui incarnato dal racconto dello scrittore americano – e perderete del tempo prezioso in quisquilie di scarso valore formale e contenutistico. Se ci pensiamo bene, è proprio come quando siamo davanti alla televisione: forse quel documentario sull’unità d’Italia non è molto accattivante, ma se dopo dieci minuti desistiamo e ci lasciamo abbindolare da sostanze più leggere, cosa avremo concluso? Overload affronta apertis verbis questa problematica, declinandola però in maniera così scaltra che il pubblico si accorge di essere stato al gioco nefasto dello zapping smodato e sconclusionato solo quando è troppo tardi, solo quando non ha capito nulla di ciò che Wallace aveva da dire. Divagazioni ludiche, atroci amnesie, agghiaccianti rovesciamenti: ecco cosa riceve l’uditore che si alza. Sarebbe bello argomentare con degli esempi, ma poi forse si sfocerebbe nello spoiler, che non è una pratica educata. E poi Overload è un esperimento conturbante che merita assolutamente di essere visto, anche se forse gli spettatori più attenti (quelli che non si fermano al primo livello d’analisi del testo) torneranno a casa infastiditi, non certo dallo spettacolo in sé, ma dall’atteggiamento di un pubblico che dopo essersi alzato due o tre volte per un divertissement lecito dovrebbe dimostrare una certa maturità, l’autocontrollo che si confà a coloro che sanno ponderare le proposte del cosmo. Da questo punto di vista la proposta di Sotterraneo è infinitamente superiore a tante delle didascaliche esibizioni contemporanee, perché non si limita a sfondare la quarta parete: affida anzi tutte le responsabilità al pubblico, che ha qui l’occasione di plasmare una buona parte del corpo dello spettacolo e che però potrebbe non rivelarsi all’altezza della missione. Diranno alcuni: ma se la gente non reclamasse i contenuti speciali lo show diventerebbe tutt’altro. Ed è vero: se gli astanti non si alzassero, molto probabilmente non ci sarebbe proprio un Overload, la scena non decollerebbe. In questo senso, ogni persona che si alza dalla poltrona celebra il suo spazio di giustizia poetica, percorre quel tracciato che qualcuno ha deciso per lui e quindi lo show può funzionare. Ma per migliorare il mondo, forse bisogna anche scardinare le aspettative, deragliare dai binari sui quali ci hanno adagiato. Perché fin quando switchiamo a teatro i danni non sono gravi (forse non ci sono proprio), ma se continueremo a switchare nella vita, prima o poi ne pagheremo le conseguenze.
Davide Maria Azzarello