Un insolito Minotauro al Teatro Gobetti
Friedrich Dürrenmatt è stato uno scrittore, un drammaturgo e un pittore. Era svizzero ma disapprovava certi atteggiamenti dell’intellighenzia elvetica, era figlio di un pastore protestante ma s’interessava più che altro alle mitologie antiche, ai simboli di religioni lontane. Politicamente impegnato, dedito quasi sempre ad una letteratura militante. Oggi è un negletto tra i tanti: raro sugli scaffali delle librerie come nei programmi delle facoltà di lettere. Eppure, al netto delle opinioni personali, si tratta di un uomo che merita di essere conosciuto. Ci sono i suoi quadri, che condensano le tinte lacerate dell’ultimo Goya, i volti inquietanti di Ensor, gli scenari né astratti né concreti dell’Informale, la gente fluttuante di Chagall, ma anche certe atmosfere ansiogene di Ernst o Colombotto Rosso. E poi c’è il teatro. Un angelo scende a Babilonia, la commedia del ’54 che essenzialmente funge da prequel alla costruzione della leggendaria torre da parte di Nabucodonosor. La visita della vecchia signora, dramma del ’55 ambientato nella fittizia Güllen (molto simile al lemma tedesco per liquami), dove la multimiliardaria Claire Zachanassian si rivela una folle vendicativa che corrompe un’intera comunità per far assassinare un ex fidanzato. E la letteratura: Il giudice e il suo boia (sull’abisso che separa la verità dalla giustizia poliziesca e giudiziaria), Il sospetto (su un assassino di matrice nazista scoperto da un anziano commissario prossimo al pensionamento), La morte della Pizia (sul grottesco nei miti greci), e tanti altri. C’è poi un libretto di appena ottanta pagine, pubblicato nel 1985 e ristampato quest’anno da Adelphi. S’intitola Minotauro, ed è un racconto estremamente affascinante, una riscrittura speculare e per molti versi kafkiana dell’omonimo mito dove Teseo è un bestiale assassino senza scrupoli, e Minotauro un ragazzo innocente. A dirla tutta, Dürrenmatt doveva aver letto anche La casa di Asterione, di Borges, brevissima novella basata sul medesimo ribaltamento.
Minotauro di Dürrenmatt è stato il punto di partenza per la genesi di uno spettacolo teatrale di tutto rispetto, il quale indaga efficacemente sul tema della non appartenenza, intesa come processo di ostracismo che, laddove non comporta l’esilio, provoca invece la reclusione a vita. Regista, sceneggiatrice, coreografa e interprete: Silvia Battaglio. Il testo della sua Ballata per Minotauro parte calmo, monocorde: il protagonista è un ragazzino spaventato, che parla con un’Arianna che è sorella, analista e probabile alleata. Ha bisogno di aiuto, di amici, di leggerezza: gli serve che gli altri capiscano che lui non è solo un mostro, e soprattutto che non ha scelto di esserlo, come non ha deciso di dover impazzire in un labirinto che è fisico ma anche spirituale. In questo senso, la scenografia dapprima sorprende e poi convince: sul palco c’è solo una piccola finestrella appesa nel buio, quasi a dire che il dedalo, l’intrico, le difficoltà, non sono state banalmente edificate attorno alla sua persona, ma dentro la sua psiche, nel suo cervello. E peraltro Minotauro lo dichiara sin da subito: questo labirinto è stato costruito per confinare non la sua bestialità, ma quella degli altri; la violenza di coloro che in superfice rispondono positivamente ai canoni proposti e imposti dalla comunità. Quel luogo esiste perché la città possa rimanere intatta: con grande ipocrisia, al posto di risolvere i problemi, questi vengono nascosti. L’onta va celata. La stoica tenacia di chi convive con i propri pluralismi dell’anima stiamo forse iniziando a svilupparla solo oggi, pian piano, a distanza di qualche millennio: un testo del genere, pertanto, si rivela fondamentale se si vuole comprendere quanto sia facile ricadere nel conformismo dal quale discendiamo e quanto sia difficile confermarci come individui audaci, che non temono l’evoluzione e che lottano per essa. Il monologo della Battaglio attesta poi che Minotauro non vuole neanche uccidere: lui attende al massimo un salvatore, un messia, come una principessa in un castello sorvegliato da un qualche drago. O, meglio, come un drago confinato in un fossato, desideroso solo di poter tornare a volare. Nessuna principessa. Teseo, invece, è un solenne idiota, un burattino, un matador e un soldato. Teseo, qui, è lo strumento attraverso il quale la società tenta di auto-tranquillizzarsi; è il conforto dei deboli, degli ignoranti, e infatti finisce impiccato nel famigerato filo di Arianna (passaggio meraviglioso, sublime, genaile). Battaglio ricostruisce un mito, un topos, cucendo insieme le suggestioni di Dürrenmat, Borges, e non solo: quantomeno, ci sono anche Los reyes di Julio Cortázar e Raging Bull di Scorsese. Nel complesso, la resa del testo e l’interpretazione persuadono, l’estetica risulta efficace, la trama avvincente.
Lo spettacolo è stato presentato al Teatro Gobetti di Torino, il 13 e il 14 luglio.
Davide Maria Azzarello