Un grandioso ritorno al Regio di Torino
L’estate, grazie al cielo, è terminata. Possiamo tornare a teatro, e a vivere. Il Regio di Torino, da gennaio di quest’anno capitanato da Cristiano Sandri, ha scelto di ripartire con La Juive, grand-opéra sconosciuta ai più e quindi automaticamente accattivante. Un primo spettacolo che è anche, in qualche modo, manifesto di una stagione intera: l’intenzione è di portare sul palco delle cose che altrove non si vedono. Seguiranno infatti altri titoli peculiari, agli antipodi dell’opera pop: per esempio Un mari à la porte (Offenbach) e La rondine (Puccini). La produzione è del Regio stesso, che ha disposto sul campo una serie di professionisti: alla direzione dell’orchestra troviamo Daniel Oren, amico del teatro e profondo conoscitore de La Juive, che ha già diretto due volte a Londra e Parigi. In regia c’è Stefano Poda, che con Paolo Giani Cei ha curato ogni aspetto estetico: scene, luci, costumi, coreografie. La prima assoluta è stata giovedì 21 settembre, le recite sono terminate ieri. Noi abbiamo avuto l’occasione di assistere alla replica del 28 settembre (dedicata ai morti sul lavoro di Brandizzo, per i quali è stato proposto il minuto di silenzio) in una platea non gremitissima forse anche a causa della durata – quattro ore e venti di cui mezz’ora di pausa – che un po’ spaventa. Parallelamente però, bisogna evidenziare due fatti: innanzitutto chi è presente è interessato fino in fondo (non ha squillato neanche un cellulare, per dire), e dunque s’è creata un’atmosfera quasi da intenditori; la passione dell’ascolto accomunava tutti, assicurando così un’esperienza unica. Di conseguenza la durata percepita è anche molto più breve, in un certo senso. Tra l’altro, quest’inaugurazione si porta dietro l’aura dell’evento storico: è dal 1885 che al Regio non torna questo spettacolo. All’epoca fu in italiano, oggi si è optato per il testo originale. Ma veniamo al dunque: La Juive, l’ebrea, è forse la più esemplare grand-opéra, il genere parigino ottocentesco che emancipava dal lirismo puro sposato in precedenza. I tratti fondanti? Soggetto storico e storicizzato, contrasti ideologici (qui, per esempio, religiosi), passioni di sorta e, di pari passo, la spettacolarizzazione dei contenuti. Acquistano tuttavia importanza pure altri elementi, come il balletto e il coro. E infatti il libretto di Eugène Scribe, musicato da Fromental Halévy, ci porta a Costanza, nel 1414: è Pasqua, e uno dei tre papi del momento, Giovanni XXIII, convoca il concilio che si occuperà tra l’altro dell’eresia di Jan Hus, anticipatore del protestantesimo che funzionerà meglio poi con Lutero e Calvino. In questo contesto poco tollerante (Hus morirà sul rogo) un altro gruppo che deve temere i potenti è la comunità ebraica. La fanciulla che da il nome al titolo, protagonista suo malgrado, è Rachel, figlia adottiva del gioielliere Eleazar, il quale rifiuta di riposare durante la domenica. Brogni, il cardinale, già in apertura li salva dal linciaggio. Assistiamo poi all’amore fra Rachel e Léopold, che però è cattolico e promesso alla principessa Eudoxie. Il finale? Molto simile a quello di Ifigenia, la figlia di Agamennone.
La resa di Poda è semplicemente mozzafiato, monumentale, stratificata, rivendica lo stupore di chi osserva. Al centro, in fondo, una croce al neon gigante si evolve in un’intera parete di corpi crocifissi: è un omaggio ai martiri. Lo spazio è più ampio del solito: una parte delle quinte è divenuta palco, e una pedana avanza e retrocede a seconda delle esigenze. Sui lati, una città ideale di metallo, squadrata, simile a una gabbia. Per la bottega di Eleazar, la pedana si innalza creando un soppalco: sotto, tra i monili nelle teche di vetro, gli uomini; sopra, metafisico, un Cristo. Il contenitore è statico, ma il contenuto si trasforma in continuazione. In alto, un altro neon recita: tantum religio potuit suadere malorum (A un così atroce misfatto poté indurre la religione), una citazione dal De rerum natura di Lucrezio, in cui si narra la versione più cruda della storia di Ifigenia, secondo cui la fanciulla venne davvero sacrificata per placare l’ira della dea Artemide, e non sostituita all’ultimo momento con una cerva. I costumi sono squisitamente contemporanei, e concorrono a creare una situazione di magniloquenza; le luci (evento più unico che raro) sono veramente ricercate, studiate, vive. Spesso, inoltre, viene calato dall’alto un enorme astrolabio, che ruota concentrico come un sistema di pianeti. In questo contesto già di per sé estremamente affascinante, denso (ci sarebbe ancora molto da riferire), il cast viene egregiamente condotto dal direttore Oren: Mariangela Sicilia gestisce molto bene la parte di Rachel, in bilico fra soprano e mezzosoprano; Riccardo Zanellato è un Brogni poco grave ma autorevole; Martina Russomanno è l’Eudoxie per eccellenza: languida e fascinosa. Gregory Kunde, Eleazar, conquista applausi fragorosi già durante la messinscena: tenace, inappuntabile, sa esprimere il tormento del suo personaggio con un rigore mirabile. Molto bravo anche Ioan Hotea, il principe Léopold. Completano il cast Gordon Bintner (Ruggiero), Daniele Terenzi (Albert), Rocco Lia (un araldo), Leopoldo Lo Sciuto (un ufficiale dell’imperatore), Lorenzo Battagion e Roberto Calamo (uomini del popolo), e il coro di Ulisse Trabacchin.
Davide Maria Azzarello