Un dio ubriaco e i suoi figli: esigenze ignorate al Teatro Astra
A differenza di tante altre istituzioni non dissimili, il Teatro Astra di Torino, per fortuna, dà sempre più spazio alla danza. Il 10 e l’11 luglio, sabato e domenica del weekend appena passato, è tornata sul palco Michela Lucenti, che ha presentato la sua ultima creazione, nata dalla collaborazione col Balletto Civile (da lei fondato a Udine nel 2003) e prodotta (tra gli altri) dal Teatro Piemonte Europa. Si legge nel comunicato stampa: […] Un teatro senza confini che si destreggia continuamente tra discorso danzato e parlato, cercando una terza via: la visione, esperienza sinestetica che mescola differenti linguaggi. […] …un affresco dolente di antieroi […]. Lucenti definisce la performance come una radiografia dell’esistente. Un’epopea breve, poco epica, di una comunità attraversata da piccole e inesorabili avversità […].
In soldoni, l’obiettivo di Lucenti e del Balletto Civile era quello di raccontare le umane esigenze disattese e ignorate attraverso le conseguenze e i comportamenti degli individui, che sono più evidenti e più dissacranti: è una danza antiborghese di bulimie, abulie e malinconie varie e per certi versi cangianti d’un’iridescenza piuttosto commovente. Tramite una serie di pose disarmoniche e dialoghi gestuali, grazie a dei movimenti per lo più sgraziati, kitsch, questo spettacolo indaga le paure, siano esse razionali o meno; le ossessioni, e i desideri. Un cast eterogeneo – dodici interpreti d’età compresa fra i nove e i settantasei anni – si muove sul palco senza rispettare alcun tempo scenico: le storie, le vicende, le biografie si accavallano come in una grande piazza dove ognuno affronta il proprio patibolo, le proprie insicurezze, i fallimenti. Poi certo, c’è anche qualche rivincita, e addirittura talune vittorie, ma trattasi banalmente d’intermezzi tra una sfida e l’altra, dove la prossima è sempre più ardua. C’è un inserviente che pulisce la fabbrica, un papà che porta la figlia in gita, un supplente comunista che inveisce contro il furto dei mezzi di produzione, un anziano anarchico, un dirigente d’azienda partenopeo che di giorno porta la cravatta e di notte indossa certe tutine aderenti blu satinate per le gare di balli sudamericani. E poi ancora: un nonno, un travestito, una casalinga, molti operai, corrieri, periti chimici, bugiardi, figli, nipoti d’adozione, una sposa, un tifoso dell’Inter. Tutti guardati a vista da un angelo ceruleo, unico personaggio muto, unica ballerina classicamente intendibile: osserva senza giudicare gli umani che litigano e si amano, eternamente divelti fra la cooperazione e l’egoismo. Tutti immersi nel silenzio, nel frastuono di una discoteca e poi nelle arie barocche di Claudio Monteverdi: apparentemente inopportuno, se si pensa a quanto volutamente inelegante sia l’assetto coreografico, in realtà controbilancia perfettamente quest’ultimo, riproducendo peraltro in maniera efficace l’eterno equilibrio tra la vita degli umani – spesso greve, volgare, puerile – e il loro potenziale di inventori, artisti, scienziati. Impertinente, infine, il titolo: Figli di un dio ubriaco. Quasi una denuncia, un’empia invettiva, una riformulazione delle responsabilità e delle colpe: siamo difettosi, siamo peccatori, siamo incoerenti, palpitiamo d’imperfezioni, eppure il libero arbitrio non basta per emanciparci dalla nostra stessa natura, dal milieu che ci accomuna tutti, e cioè un’ambigua forza creatrice, più dionisiaca che apollinea. Il dio cui si fa riferimento, da intendersi ovviamente in maniera agnostica, è un’entità fragile come noi, che nella corruttibilità sguazza quanto noi: la matrice dalla quale discendiamo, da cui sgorghiamo, è guasta, degenerata, ipocrita, e di conseguenza i pezzi che escono da questa fabbrica possono solo sperare di essere abbastanza tenaci da sublimare la propria imperfezione. Ma poi, chi ne è veramente capace?
La performance, dato anche il fragoroso e prolungato applauso di domenica, è da considerarsi ben congeniata e distintamente interpretata. S’intuisce, anche per chi non la conosce, che Lucenti è un’artista capace e coscienziosa, degna adepta dei suoi maestri, fra cui si annoverano Philip Glass, Jerzy Grotowski e Jan Minařík (e dunque, indirettamente, anche Pina Bausch). Nessuna vera scenografia, costumi anonimi rispondenti agli stereotipi: il fulcro di tutto è la sinestesia danzata dall’umano.
Davide Maria Azzarello