UN ATTO DI MEMORIA E RESISTENZA: “MAI MORTI” AL TEATRO ELFO PUCCINI DI MILANO
«Un giorno un parlamentare di sicura fede fascista dice più o meno così a un ex perseguitato politico ebreo comunista: “Anche se su barricate opposte, tutti e due abbiamo lottato per il bene del nostro paese”. E l’altro: “Si, ma con una differenza: siccome abbiamo vinto noi tu sei seduto sugli scranni del Parlamento; se vincevate voi, io sarei ancora in galera…se non peggio!”».
Con queste parole, e con immagini proiettate della strage di Piazza Fontana e dei funerali delle vittime in Duomo a Milano, irrompe nei teatri e nelle coscienze degli spettatori “Mai Morti” di Renato Sarti, con Bebo Storti, in scena da ormai quasi vent’anni (la prima versione risale al 2000, quella completa al 2002, con lo storico debutto al Teatro dell’Elfo).
“Mai Morti” era il nome di una delle più violente Compagnie della Xa Flottiglia MAS, corpo militare indipendente comandato dal capitano Junio Valerio Borghese, che strinse alleanza con l’esercito tedesco e dal 1943 al ’45 operò in opposizione alla resistenza italiana con metodi terroristici, macchiandosi di crimini di guerra e contro l’umanità. Giorni nostri, scena cupa e spartana, una nottata in cui è difficile prendere sonno. Circondato dal mobilio di sapore antico – un letto, un armadio, una scrivania con libri e documenti ben ordinati, un paio di sedie – il reduce Mai Morto si aggira sciattamente in vestaglia da notte che copre la biancheria e una maglietta nera con il simbolo della Decima; tra un sorso di whisky e l’altro, si lascia andare al suo lucidissimo, spietato delirio nostalgico di ex-combattente. Le sue mani prudono, “da troppo tempo inoperose”, e solo viaggiando con la mente può trovare sollievo. Come quando si reca al Piccolo Teatro di Via Rovello la sera, non certo per interesse dello spettacolo in scena, ma per risvegliarne i fantasmi, perché quel palazzo era stato Caserma del Comando della Legione autonoma mobile Ettore Muti. In quelle stanze che ora sono camerini lui gode a riassaporare nella sua mente le urla strazianti delle torture inflitte agli oppositori del regime.
La drammaturgia di Sarti, pezzo dopo pezzo, tende il filo della memoria cucendo assieme episodi di una storia d’Italia ancora oggi mai raccontati a dovere, quasi sempre taciuti. Rodolfo Graziani, le stragi e le efferatezze compiute in Etiopia in ragione del colonialismo a suon di bombe all’iprite, la cronaca di torture, rappresaglie, esecuzioni sommarie della MAS, fino ad attraversare “la grande stagione delle stragi” (“ai funerali di Piazza Fontana si doveva fare il grande botto finale. Bastava un ordigno, uno solo…”) e arrivare alla Genova del G8. Tutto torna, è la radiografia di un Paese in cui il fascismo è ancora reale, traccia non solo politica e sociale, ma anche causa prima di una mutazione genetica che diremmo inarrestabile. È una bestia semplicemente rimasta in disparte per qualche tempo, in paziente attesa di qualcuno o qualcosa che spiani la strada per il suo ritorno trionfale. C’è ancora fuoco sotto le ceneri. Sulla scena il Mai Morto si riveste, parola dopo parola. Camicia militare, pantaloni di panno, cravatta nera. Solo alla fine stivali e giacca della Decima. Quel rottame di un mondo che appariva finito risorge sotto i nostri occhi, ed è nel pieno delle forze. Bebo Storti ha raggiunto nel corso degli anni l’evidente – e sconvolgente – perfezione nel suo ruolo: taglio espressionista e violento (anche grazie ai chiaroscuri delle luci di Nando Frigerio), chirurgico nella partitura dei gesti, terribile ma seducente, coerente e spietato passa in rassegna le tappe del ragionamento senza prendere fiato, con un ritmo interiore che ha l’effetto di stroncare qualsiasi diritto di replica. La parte finale del testo viene aggiornata pazientemente dall’autore e dall’interprete, di anno in anno, di replica in replica, riportando le testimonianze schiaccianti degli attuali e sempre più allarmanti rigurgiti di fascismo. Purtroppo, il materiale non manca mai.
Oggi, nel 2019, il Mai Morto si aggira tra il pubblico fiero della sua divisa, e sente a portata di mano quel nuovo trionfo: “…ma adesso che finalmente qualcuno, lui, che ha il coraggio di rinverdire pubblicamente gli stessi motti del duce, ‘molti nemici molto onore’, raccatta nel suo partito vecchi arnesi del nazismo nostrano, che dà la mano ai capi degli ultras […] uno che ha il coraggio di dire ‘La pacchia è finita per i migranti’, non per le onlus, a quelle gli facciamo un culo quadro così…prima gli italiano, prima gli italiani! Adesso che finalmente c’è uno come lui potremo… perché tanti, tanti sono i sintomi positivi per un nostro rientro alla grande […]”.
E mentre segue l’elenco di questi odierni sintomi, la consapevolezza schiacciante è una soltanto: quello che accade sulla scena è tanto più concreto oggi di quando chi scrive ha visto lo spettacolo appena due anni fa. Il nostro vicino di casa potrebbe ragionare così, e non ce ne stupiremmo. Se ne ritrovano gli echi disinvolti in tante pagine dei giornali, in tante voci social, e, quel che è peggio, nei pensieri di chi ci governa. Se lo stesso monologo fosse portato fuori dalla Sala Bausch del Teatro dell’Elfo (dove è andato in scena dal 24 gennaio al 10 febbraio 2019) in una qualsiasi delle piazze delle nostre città, senza nessuna introduzione, si creerebbe una folla che non stento ad immaginare esaltata in applausi. La scorsa domenica, 10 febbraio, mentre si replicava per l’ultima volta lo spettacolo, online venivano diffuse le immagini della commemorazione dei martiri delle foibe a Basovizza. Tra la folla che riceveva la stretta di mano del Ministro dell’Interno, un capannello raggruppato dietro lo stendardo della Decima MAS.
Riecheggiano le ultime parole intrise di eccitazione del combattente sul palco: “Tu vivi di illusioni vigliacche popolo italiano se pensi di poter uscire presto dal tuo inferno”.
Mai Morti, esempio tra i più elevati di teatro veramente civile, di militanza attraverso le armi dello scavo documentario, dello studio storiografico e della scrittura, è un rito comune di conoscenza, memoria e resistenza che ogni sera, tenacemente, unisce e scuote ogni singolo spettatore. È il primo passo per tentare di orientarci, e trovarla, l’uscita da quell’inferno.
Che un attore e un regista continuino a rappresentare Mai Morti, è un atto di Resistenza.
Che un teatro lo inserisca nella sua programmazione, è Resistenza.
Che uno spettatore entri in quella sala, portando di volta in volta qualcuno con sé, è Resistenza.
Mariangela Berardi