“Un amore”, un amore?
La madrilena Sara Mesa, pluripremiata autrice spagnola di romanzi e racconti, ha pubblicato nel 2020 il suo ultimo romanzo, “Un amore” (La Nuova Frontiera, pp. 185, euro 16,50).
“La mettono in soggezione le parole che un’altra persona ha scritto prima di lei, parole selezionate con cura, scremate tra tutte quelle possibili, ordinate in un’unica forma nell’infinità delle combinazioni scartate. Se vuole farlo bene – e vuole – deve tenere in considerazione ciascuna di quelle alternative. Ma pensare in questo modo porta all’estenuazione e alla paralisi. Scandagliare il linguaggio con quel livello di consapevolezza lo depreda di significato.”
Nat è una giovane traduttrice e, lasciato il precedente lavoro, si è appena trasferita a La Escapa, un paesino della Spagna rurale. La casa che prende in affitto, con il cui proprietario nasceranno sin da subito conflitti di varia natura, è fatiscente e piena di infiltrazioni.
La Escapa è un posto che ha le sue regole, ma Nat fatica a comprenderle e ne nasce un’ostilità reciproca che la porta a rapporti instabili coi vicini di casa, a una storia quasi ossessiva con Andreas, a distrarsi dal suo lavoro, fino a trascurarlo del tutto.
In questo contesto, Nat sarà chiamata al confronto continuo, con sé stessa innanzitutto, e al mettere in discussione ogni visione e certezza precostituite.
Punto cardine di questo romanzo breve è il linguaggio. Non le scelte lessicali, ma il ruolo che si attribuisce al linguaggio inteso come comunicazione, o la sua mancanza.
Nat, nonostante il suo lavoro o forse proprio a causa di quello, fatica a entrare nei meccanismi di comunicazione di La Escapa, che corrispondono a un ordine preciso delle cose.
Nello stesso rapporto con Andreas, Nat finisce col sentirsi la parte debole perché lui “scava nella sua vulnerabilità, estraendo palate e palate della sua insicurezza. Lei diventa sempre più piccola, e lui più forte. Lei più dipendente, e lui più libero”.
E Nat diventa il capro espiatorio, perché diversa, perché non si adegua al contesto che la circonda. Si lascia sovrastare dalle incertezze e dal giudizio di chi le sta intorno, ma anche di amici e parenti lontani che chissà cosa penserebbero nel vederla vivere in un posto così, facendo la badante a due anziani.
“Il malessere della felicità è un’idea che le ronza ora in testa con insistenza: un tipo di felicità che contiene in sé il seme della sua stessa distruzione.”
Nat mette continuamente in discussione ciò che vede/pensa di aver visto, ciò che sente/pensa di aver sentito. C’è un continuo contrasto tra l’immagine che ci creiamo degli altri, attraverso ciò che dicono e la forma che diamo a quelle parole, e ciò che si rivelano essere.
Gli stessi personaggi, più che dalle loro azioni, sono definiti dal modo in cui comunicano, dai repentini cambiamenti di linguaggio e registro.
E Nat finisce col costruirsi da sola la propria prigione.
Una prigione in cui resta poco spazio per l’amore.
La stessa autrice ha dichiarato di aver scelto un titolo volutamente ambiguo e provocatorio per invitare il lettore a mettere in discussione le sue aspettative e la stessa idea precostituita dell’amore.
E se la descrizione del primo incontro amoroso, un accordo commerciale in realtà, tra Nat e Andreas è quasi commovente, perché ci ricorda il bisogno anche fisico di contatto umano, tuttavia è proprio la (non) storia tra i due a lasciarci il monito più importante: non c’è amore più grande verso quello per la persona che scegliamo di essere, nonostante tutti.
Laura Franchi