Tre monologhi: Penna, Morante, Wilcock
Poeta, critico letterario e scrittore, Elio Pecora ha di recente pubblicato il suo ultimo lavoro “Tre Monologhi. Penna, Morante, Wilcock” (Il ramo e la foglia edizioni, pp. 76 pagine, euro 13), una sorta di dedica a tre grandi autori del ‘900 letterario.
“La mia cheta follia. Quieta, di un’inquietudine che non ignorava l’allegria, perfino lo stupore, la contentezza. Gli opposti…mai ignari l’uno dell’altro. Dal pozzo fondo scorgere un barlume. Nella luce abbagliante intravedere l’ombra e il buio.”
Sandro Penna si racconta attraverso gli strumenti della sua giornata e della sua poesia. Si parte da un fatto reale: la richiesta ricevuta, negli ultimi anni di vita, di scrivere un’autobiografia. Per questo, gli viene consegnato un registratore, che lui usa in modo capriccioso, accendendolo e spegnendolo di continuo. Un monologo per raccontare il grumo della sua vita, così lo definisce Pecora, la sua essenza e le sue predilezioni, tutto quello che si ritrova nella sua poesia, tutto quello che fa di lui un folle quieto, il cui talento “è consistito nel presagire i confini nei quali muovermi. L’esito? Il bene di raggiungersi, toccarsi dentro”.
“…Uno strano, uno strambo, uno che scrive poesie, racconti, commedi, e critica tutto e tutti, non risparmia nessuno. (…) Congelava chi gli stava di fronte. In un’intervista televisiva le sue risposte cadono fredde ed esatte come coltellate, l’intervistatore s’inceppa, ammutolisce. Non dà scampo.”
Wilcock si racconta, e viene raccontato da altre due voci che si mescolano e alternano, tra pettegolezzo e celebrazione, attraverso le case, il vestiario, i modi insoliti, le tenerezze, l’amore per i ragazzi, l’isolamento, gli animali, la sua chiusura alla vita fino al giorno della morte, avvenuta nello stesso del rapimento di Aldo Moro.
“Ci sono giorni in cui la sua stessa stanza, quella riconosciuta ancora bambina nel chiuso della mente, non questa di inutili arredi, di luci appannate, anche quella si rivela come il rifugio in cui fingersi qualche inutile attesa, forse soltanto quella del disfarsi nel niente…”
È un’Elsa Morante, quella che emerge dal monologo, carica di disciplina e di umori, presa dal lavoro, in particolare dalla stesura de “La Storia”, che si concede poche parche distrazioni, per tornare all’isolamento, la dimensione che forse più le era propria. Una donna sicura di sé, eppure sempre timorosa di non essere amata abbastanza.
A metà fra teatro e poesia, quello che Elio Pecora ci fa fare è un viaggio intenso nella vita di tre artisti, quasi un invito alla lettura, un percorso di avvicinamento a personalità così diverse eppure accomunate dalla tensione e passione con cui hanno vissuto e scritto, da quell’avidità tipica degli artisti che voglio tanto, e da tutto restano delusi, in un continuo isolarsi e rigettarsi nel mondo.
Una testimonianza dei tre, per mano di Pecora, che è un attestato di amore verso chi aveva conosciuto in modo personale e ravvicinato. Da questi monologhi è infatti l’interiorità che emerge, la vita e la poetica che si intrecciano profondamente. Pecora racconta per rifrazione, racconta quello che gli è restato in qualche modo impigliato addosso, un raggio della verità intera.
“Sapevo che va amata per intera la vita. Dovrebbe esserci cara in ogni suo aspetto. Invece la subiamo, per la massima parte, come una fatica. La poesia ne trae momenti in cui l’essenza coagula, ed è l’inesprimibile che si manifesta.”
Laura Franchi