“Tra le tue sgrinfie” di Giuseppe Benassi
“Riparte la gioia di vivere, o la gioia di addormentarsi, di morire. Anche di morire, si, di morire, perché quello è il desiderio supremo, anche se il meno riconosciuto, il più difficile da capire e da accettare. Si riprova lo stupore di esistere, di essere al mondo, di essere nel mondo, retto da dei che in quei momenti si rilevano”.
Vivere o morire, questo è l’amletico dilemma, l’opposizione arcaica ma moderna, la chiave di lettura che ognuno di noi, prima o poi, si vede recapitare a domicilio. Questa volta il protagonista nel romanzo di Giuseppe Benassi “Tra le tue sgrinfie” (Manni Editori, 2020, pp. 126, euro 15) è l’ingegner Mazza, ex compagno di studi dell’avvocato Borrani, che rappresenta l’uomo finito, destinato a morire perché solo la morte può mettere riparo all’onta di cui si è macchiato e soprattutto di cui ha macchiato la sua famiglia borghese. La beffa è che vorrebbe suicidarsi, quando gli basterebbe solo attendere, per raggiungere il suo scopo, che il grave tumore allo stomaco di cui è ignaro custode, faccia il suo decorso. Fallito, accusato, povero, tartassato dai sensi di colpa è soprattutto consapevole di essere stato incastrato. Quale miglior epilogo se non la morte ripulitrice? No, è altro il suo destino.
Incontra per caso Borrani che, per alleviare la sua situazione, lo indirizza da un falsario, omosessuale che con la sua bravura di pittore e le sue contestabili conoscenze, a loro volta vittime dei suoi stessi ricatti, risolleva la situazione del Mazza, al punto di farlo risorgere dalle sue stesse ceneri. Dal baratro alla felicità mai assaporata, e grazie a “Zia Carmela” a Safik e al cane Ciro, il povero Mazza, guarisce dal suo tumore allo stomaco, apprende la meschinità della moglie ormai defunta e di quel superbo figlio, di cui non è il padre, al punto di vivere una sorta di risurrezione. Può il male generare il bene? In questo caso sì, come Benassi spesso dipinge nei suoi romanzi – la coniunctio oppositorum – fatta di morte/vita, luce/ombra, tramonto/alba, squallore/purezza. Il linguaggio è carico di metafore, antitesi che si fondono nel vortice di un climax ascendente.
La natura, gli animali sono le sole personificazioni della purezza innocente, che raggiunge l’apice con l’infantile figura di Safik, e così dal decadimento della stazione di Pisa alle descrizioni del bosco e della natura di Zia Carmela. Tutto è fine ma allo stesso tempo tutto è risurrezione. Dunque, chi di noi non si è sentito alba e allo stesso tempo tramonto, solo leggendo potrà apprendere come risalire la china dopo essere sprofondato nel baratro.
Marisa Padula