Torino, Teatro Gobetti: lo strazio di Felicita per Lorena Senestro
E rivedo la tua bocca vermiglia / così larga nel ridere e nel bere, / e il volto quadro, senza sopracciglia, / tutto sparso d’efelidi leggiere / e gli occhi fermi, l’iridi sincere / azzurre d’un azzurro di stoviglia….
Trasportare un testo poetico moderno sul palco di un teatro è quasi sempre un’operazione degna di nota. Se poi non si tratta di una mera lettura ma di una vera e propria riformulazione dell’opera in chiave interpretativa, allora una visione è necessaria. Se, infine, non ci si limita a celebrare un autore tramite i suoi versi, ma si crea un nuovo mondo a misura del protagonista di quei versi, allora la magia è pressoché assicurata.
La programmazione dello Stabile, a Torino, continua con un ritmo serrato: la scorsa settimana, dall’11 al 16 maggio, è andato in scena al Teatro Gobetti di via Rossini La signorina Felicita, ovvero la Felicità. Nei panni dell’arcinota fanciulla, Lorena Senestro; alla regia, Massimo Betti Merlin. Lo spettacolo (proposto per la prima volta nel 2016 sempre allo Stabile, che lo ha prodotto) è una possibile ri-codificazione drammaturgica del celeberrimo testo di Gozzano che racchiude in sé gran parte dei temi cari al crepuscolarismo. Qui, però, Guido è assente: è morto a soli trentadue anni, di tisi (ovviamente); e in scena sopravvive solo lei, la fanciulla priva di lusinga, che col padre quasi bifolco (Andrea Gattico) ricorda quell’affascinante avvocato torinese che non si occupava di legge, ma… di poesia. Finalmente, Felicita racconta la sua versione dei fatti: Guido è stato il suo primo e forse unico amore, nonché il baluardo effimero di una vita che lei non avrebbe mai potuto vivere. E nonostante il testo teatrale non sia molto di più che la poesia stessa riorganizzata, dai toni, dai modi e da certi gesti s’intuisce che la giovane vuole anche problematizzare la sua figura: sì, lei non è bella, non è una sofisticata damina di città; è una modesta ragazza di campagna poco istruita, ma è anche una donna compresa nel proprio ruolo, poiché ha capito chi è davvero l’avvocato, e soprattutto ha colto che anche se non medita su Nietzsche, lo renderebbe comunque più felice di qualunque intellettuale gemebonda. Felicita magari non è brava con le parole, né sa rendere retoricamente quello che si smuove nel suo subconscio, ma non è stupida: sa che Guido, in qualche modo che lei non può razionalizzare, non vuole essere sé stesso, non più l’esteta gelido, il sofista; lui anela una vita più semplice, meno consapevole (come tuo padre, come il farmacista…). Il risultato, quindi, è un monologo straziato, di chi vorrebbe soccorrere chi non può (o non vuole) essere aiutato. Felicita e suo papà si muovono in una Vill’Amarena di cui vediamo solo l’interno: Silenzio! Fuga delle stanze morte! / Odore d’ombra! Odore di passato! / Odore d’abbandono desolato! / Fiabe defunte delle sovrapporte! … la scenografia è davvero graziosa, fatata, ma anche lugubre, scura; sembra quella sala sproporzionata dove l’Alice di Lewis Carroll beve per rimpicciolirsi e mangia per ingrandirsi. Un tavolo gigante, un vassoio di tazze e bicchieri frantumati, il pianoforte per il padre di Felicita, una scala che è anche una sedia, la cornice del quadro da cui talvolta fuoriesce il fantasma della dama, e poi tanti cerchi di legno appesi al soffitto che ruotano inerti come dei posatoi senza uccellini, o delle altalene senza bambini. Questo arredo squallido e severo è opera di Francesco Dell’Elba, che ha curato anche le luci e col quale bisogna complimentarsi.
Lo spettacolo, insomma, è piuttosto riuscito. Si percepisce tutto il bifrontismo del Gozzano autore, qui traslato su una Felicita che oscilla perennemente fra ciò che è e ciò che una parte di lei vorrebbe essere: la giovane in fin dei conti ritiene di essere risolta, non crede di poter sognare altro perché le mancano gli strumenti per farlo; ma l’amore per un poeta tanto colto tradisce la voglia di essere qualcun’altro, la sete di conoscenza, il desiderio (per lei, forse, inesprimibile) di allargare i propri orizzonti verso esperienze e realtà altre rispetto alla vita nel Canavese. La messinscena, dunque, indaga in maniera capillare quella lacerazione esistenziale che affligge coloro che sentono di essere nel posto o nel momento sbagliati: è un’ode a chi vive disperso fra quelle domande che tanti altri, più semplicemente, scelgono di non porsi per paura della risposta. Felicita, in bilico sulla scala, sembra domandarci: e voi? Voi, che di sicuro sarete qualcuno, chi vorreste essere davvero?
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Andrea Macchia