Torino, Teatro Astra: la magia sufista del derviscio
Ma sai Cinzia che anche io una volta ho frequentato un corso di danza africana? Ruotavamo, ruotavamo… e davvero, dopo un po’ entri in trance. Che esperienza. Che vibrazioni. Forse devo riprendere, ora che ci penso. Le parole di una spettatrice che chiacchiera con l’amica, una Cinzia dal caschetto platino e orecchini a cerchio sovramisura, per quanto sicuramente decentrate rispetto alla situazione teatrale nella quale ci troviamo, ci aiutano in qualche modo a comprendere di cosa tratteremo. Sì, perché sul palco c’è un uomo, Ziya Azazi (Antiochia, 1969), che effettivamente gira e gira e gira in un moto inerziale e ipnotico, il quale già di per sé costituisce una proposta intrigante, degna di essere presa in considerazione. Una danza, quindi, ma anche e soprattutto una performance. Dal teatro all’arte e viceversa, come in un giro dell’oca su due binari. Le giravolte, poi, sono giravolte specifiche: non certo africane, ma sufiste, e pertanto di origini iraniane, irachene, arabe o – volendo generalizzare – mediorientali. Due nozioni basiche: il sufismo è la portata mistica dell’Islam, la dimensione ascetica dei musulmani, trasversale alle correnti interne. Secondo il filologo francese Henry Corbin, autore di Storia della filosofia islamica (Adelphi, 1973), esso sarebbe definibile come lo sforzo di interiorizzare la rivelazione coranica, il quale condurrebbe ad una conoscenza divina, misterica, e via dicendo. E in questo contesto emerge quel turbinio che Battiato citava all’inizio di Voglio vederti danzare (…come i derviches tourneurs che girano sulle spine dorsali). Per capire poi nel dettaglio come Azazi reinterpreti questo brano della cultura nella quale lui è nato, rimandiamo all’intervista che l’artista ha concesso a Repubblica. A noi, invece, basta sapere che il suo spettacolo, proposto il 25 e il 26 febbraio al Teatro Astra di Torino, è essenzialmente la dimostrazione di quanto affascinante e potente sia l’esibizione del derviscio, che qui è intima ma che evoca anche una certa coralità di anime, che è terrena e celeste, vibratile eppure incrollabile. Per un europeo, vedere un derviscio all’opera è come avvicinarsi, per un tempo limitato, ad uno stadio superiore dell’esistenza; penso al protagonista bidimensionale di Flatlandia che incontra la sfera ed è ammaliato e preoccupato perché ne coglie la bellezza, la percepisce, ma poi non se la spiega, non ha neanche un lessico per descriverla, e a distanza di anni non è sicuro neanche di quello che crede di aver visto e toccato. E lo spettacolo di Azazi, intitolato senza troppe fantasie Dervish, è proprio questo: un esempio di come alcuni esseri umani sappiano raggiungere certi stati della mente che sono preclusi a talaltri. Dal punto di vista tecnico, esso si articola su due parti: una specie di riscaldamento muscolare, la presentazione degli strumenti del mestiere (il corpo, le gonne svasate), l’esemplificazione delle varie evoluzioni e pose possibili; e poi la spirale vera e propria in tutta la sua gloria, il vortice all’apparenza infinito e che da un fulcro così minuto sprigiona un’avvolgente e folgorante energia, palpabile dalla prima all’ultima fila. Dopodiché probabilmente dietro l’atto in sé bisognerebbe individuare una trama, dei significati: leggendo il programma di sala s’intuisce e si scopre che questo percorso ballato ha una sua logica narrativa e dei temi, ma immagino anche che bisognerebbe conoscere meglio la cultura sufista per avanzare delle analisi in merito. Ciononostante, per apprezzare il prodotto ultimo, alla fin fine non è davvero necessario capirne i simboli e i gesti, proprio come non serve una laurea in architettura per cogliere la maestosità della Muraglia Cinese o del Colosseo.
Le repliche della settimana scorsa fanno parte della rassegna di danza del Teatro Piemonte Europa (che è di stanza all’Astra, per l’appunto), la cui offerta culturale continua ad essere di tutto rispetto. Qui per gli spettacoli futuri.
Davide Maria Azzarello