Torino: l’ultima puntata dell’Astra
Giovedì 22 luglio si è conclusa la stagione di danza del Teatro Astra di Torino: per l’occasione, sono state presentate due coreografie di Aurelie Mounier, giovane danzatrice e coreografa, interpretate dagli artisti della Compagnia Opus Ballet di Rosanna Brocanello.
L’ouverture, concisa ed efficace, s’intitola Gravity, ed è la metafora danzata del concetto di attrazione tra i corpi. La gravità, in breve (e in italiano), intesa come essenza della vita, ma non solo. Emiliano Candiago e Gaia Mondini, infatti, riescono a rappresentare il mutuo soccorso: entrambi sono porteurs alternati e vicendevoli, annullano i concetti di uomo e donna pur rimanendo maschio e femmina; galleggiano, orbitano fra loro riproducendo i movimenti astrali. Ricercano, insomma, quell’aspetto primordiale che preesiste all’esistenza sulla terra (…si perdonino i giochi di parole). In sottofondo, Steven Prince e Hamlet Gonshvili: il primo azzeccatissimo, il secondo un filo meno. Il risultato, nel complesso, è gradevole, per nulla annacquato e colmo di dettagli da cogliere. Pur raccontando di una forza invisibile e apparentemente vacua, i due danzatori riescono a ricreare un’atmosfera satura di significato, planetaria, consistente e comunitaria.
La seconda coreografia, più sotto tono, portava con sé alcune problematiche. Trattavasi di una versione danzata de Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi, interpretata da Aura Calarco, Sofia Calvan, Stefania Menestrina, Gaia Mondini, Emiliano Candiago, Giulia Orlando, Riccardo Papa e Frederic Zoungla. Mounier, in alcuni tratti, s’impegnava per superare i movimenti più prevedibili e dunque banali; in altri frangenti invece si abbandonava al realismo più triviale, senza creare pertanto una narrazione emozionale o evocativa, ma limitandosi alla traduzione della sceneggiatura cinematografica che è insita già nella musica. Per quanto riguarda la Primavera e l’Autunno, comunque, c’è poco da eccepire: le evoluzioni posate e disciplinate si adattano in qualche modo all’idea comune di mezza stagione e alla calma e all’allegria che Vivaldi vi aveva racchiuso. Con l’Inverno e l’Estate, invece, s’instaura una distanza a strapiombo fra la potenza indomabile della Natura in musica, che è sublime, e la docilità dei gesti e del moto in generale: soprattutto nei passaggi più virtuosi, manca un certo velocismo a spirale che nello spartito è preponderante e che però non si riflette nella resa del movimento. Certo, si trattava di un compito di difficile esecuzione: le Stagioni, scelte probabilmente per la loro popolarità, sono sopravvissute ai secoli proprio grazie alla loro peculiarità, per il loro estremo groviglio ordinato di suoni, per i viluppi, gli snodi, i fronzoli, i riccioli; insomma per tutt’una serie di orpelli vertiginosi e incalzanti che non si lasciano certo piegare dal flemmatico funzionamento dei nostri arti: c’è una distanza siderale fra l’agile dinamismo, per certi versi irripetibile, degli spartiti; e l’andatura umana. Un ritardo che suscita compassione, perché fra le due arti s’instaura una lotta ad armi impari.
(In copertina, un frame della seconda coreografia).
Davide Maria Azzarello