Torino: croci e delizie per il Regio
Queste ultime due settimane hanno segnato la ripartenza di un luogo fondamentale per quanto riguarda l’industria della cultura. Prima ancora della Scala, è stato il Regio di Torino a riaprire i battenti per accogliere il pubblico con La Traviata di Verdi nel suo allestimento del 2018 per il San Carlo di Napoli: in regia, Lorenzo Amato; scene di Ezio Frigerio, costumi di Franca Squarciapino, coreografie di Giancarlo Stiscia. Direttore d’orchestra: Rani Calderon del Teatro Municipal di Santiago del Chile, per il Regio un debuttante. La prima è stata domenica 9 maggio; e le repliche, quattro in totale, sono terminate sabato scorso.
Noi abbiamo visto la replica del 19, introdotta da niente meno che Sua Eminenza il vescovo, monsignor Cesare Nosiglia, custode pontificio della Santa Sindone, che ha coinvolto trenta ospiti fragili, senzatetto, per i quali hanno pagato i soci fondatori del teatro. Nosiglia ha dedicato la recita di mercoledì a Battiato, scomparso il giorno prima, e per questo motivo forse riusciamo a perdonargli di aver provocato un ritardo di venti minuti sulla tabella di marcia. In sala, intanto, alcuni avvicendamenti degni di nota: tutti i musicisti che possono indossare una mascherina sono stati sistemati fuori dal golfo mistico, quindi le prime file di poltrone non sono state utilizzate, e i leggii illuminati hanno interferito con le luci sceniche di Marco Giusti. Neanche Calderon ha potuto evitare il bavaglio. Ma ovviamente gli addetti ai lavori hanno una responsabilità limitata, in questo senso, perché le regole di matrice pandemica ci conducono purtroppo verso scelte di mali minori ed estremi rimedi. Sono passati quindici mesi dall’ultima volta al Regio (un Nabucco stupendo, diretto da Donato Renzetti), e sia chiaro: per sederci di nuovo sul velluto rosso avremmo probabilmente accettato qualunque condizione, perché da troppo tempo le anime sono digiune di nutricamento. Ma forse non occorre neanche precisarlo.
Lo spettacolo in sé, comunque, è stato piuttosto piacevole. Esteticamente, l’allestimento di Amato si rivela essenziale: lodevolissimo l’espediente della pioggia che cade incessante sul fondale del palco (una pioggia metaforica, un pianto), tuttavia gli ambienti omogenei di Frigerio – tendaggi dipinti, baldacchini, manifesti d’epoca – si rivelano pressoché bidimensionali, asettici. Una nota di esuberanza cromatica arriva con i costumi, che ricordano un po’ certe feste sgargianti, come (che ne so) nella Cenerentola di Branagh. Di nuovo, però, gli occhi degli astanti vengono letteralmente feriti ogni qual volta intervenga il coro, i cui esponenti sono stati soffocati nelle mascherine nonostante il palese controsenso, e lo sappiamo che è necessario, è inevitabile, però in questi casi l’ineleganza è una fisiologica conseguenza che si rivela difficile da eludere. Per fortuna, almeno, la situazione è stata affrontata con una professionalità nobilissima: le voci, dirette come sempre da Andrea Secchi, riempiono meravigliosamente lo spazio; per esempio durante Oh infamia orribile, alla fine del secondo atto. La regia cerca di recuperare in brillantezza, talvolta, con qualche espediente di carattere interpretativo: così capita che Violetta scagli per terra la bottiglia da cui avevano bevuto tutti, o che Alfredo getti delle banconote sulla protagonista, mortificata dal gesto. Di converso, sul piano musicale questa Traviata rivela qualche sorpresa: le voci principali partono tiepide, ma con il valzer dei lieti calici evolvono già; tanto potenti ed eleganti da meritare un applauso piuttosto fragoroso se si considera che vi erano solo cinquecento paia di mani che potevano omaggiare gli artisti. Clamorosa la Violetta Valery di Gilda Fiume, ponderata nel fraseggio e in qualche modo sia aggraziata che squillante anche nei sopracuti più complessi, tanto che ha quasi bisogno di essere accompagnata da altri suoni meno possenti, più bassi, e in questo senso gli interpreti maschili diventano preziosi, poiché sembrano ricondurla alla normalità: Julien Behr è un Alfredo Germont dal tono cordiale, delicato, per nulla pomposo; e Damiano Salerno risolve senza troppi intoppi il suo Giorgio Germont. Con loro, funzionali alla gerarchia che deve lasciar risplendere lei, la signora delle camelie, troviamo: Rocco Cavalluzzi (dottor Grenvil), Lorrie Garcia (Flora Bervoix), Ashley Milanese (Annina), Joan Folqué (Gastone), Dario Giorgelè (barone Douphol) e Alessio Verna (marchese D’Obigny). Forse la sola vera questione da sciogliere, in questa resa, era il carisma del testo stesso: sarà uno stereotipo, ma come scrive Emilio Sala nel libretto, la traviata è legatissima alla sensibilità e al paesaggio sonoro della modernità parigina, e qua, per i diversi motivi succitati, si è scelto di restituire un prodotto che non gioca sul piano etereo, misterioso ed altero, presumibilmente proposto da Verdi stesso o quantomeno dal pubblico che, in parte, col corso dei decenni, ha sancito il successo dell’opera proprio attraverso questa formula.
Davide Maria Azzarello