Torino, Café Müller: Pandemia di Leo Bassi è un’arringa contro noi stessi
Pandèmia, con l’accento calcato sulla vocale centrale, la prima a pressoché saltata, e le ultime due lettere prosciugate in un dittongo. Perché lui è newyorchese di nascita, e quindi inevitabilmente parla con quella dizione tipica di Luttwak o Friedman, ma poi ha vissuto ovunque, ha collezionato passaporti e cittadinanze in giro tra il vecchio e il nuovo continente, e quindi talvolta gli sfuggono anche altre cadenze, quando non dei veri e propri intercalare in spagnolo, francese, inglese. E sotto l’egida di questa frenesia poliglotta, si disquisirà di un argomento anch’esso trasversale, ai popoli e ai costumi e alle classi sociali: il morbo che ha ribaltato le nostre esistenze. Pandemia è l’ultimo scalmanato spettacolo di Leo Bassi: giocoliere, comico e attore classe 1952 accolto dal Café Müller la sera del 13 gennaio 2021 e ora stabilmente archiviato su Nice Platform, il sito streaming dove si può trovare tutta la stagione del teatro di via Sacchi, diretta da Caterina Mochi Sismondi e Paolo Stratta.
Bassi si presenta, e nella sinossi recitata del suo stesso spettacolo dice di non sentirsi solo, perché l’assenza del pubblico come transfer fisico non esclude la compagnia dei fantasmi degli spettatori che in tanti anni sono passati dagli spazi del teatro: lui li ha visti, questi spiriti cacofonici… poi ti racconta la sua vita: vari aneddoti improbabili, il cirque du soleil, la strada, il rapporto col padre, il perenne declino della clownerie. Poi si parte: siamo al Café Müller, sì, ma Bassi ci tiene a specificare che fino al 2007 (circa) quei muri ospitavano l’Alexandra, uno dei tanti cinemini a luci rosse di Borgo San Secondo. Senza curarsi di narrare attraverso un qualunque filo conduttore, Bassi da qui si spoglia, lacera la camicia, lancia le sedie, balla. È tutto molto confuso, raffazzonato, slacciato, ma d’altronde è forte l’assonanza tra il disordine di Bassi e quello della nostra società. Sì, perché l’obiettivo dichiarato di questo intervento è la presentazione di una teoria ampiamente accettata per la quale il disastro che stiamo vivendo sarebbe solo l’ennesima incontrollabile conseguenza di atteggiamenti atroci come l’egoismo, il neoliberismo, il capitalismo, e affini. Il chiasso che Bassi istituisce sul palco è solo una versione ridimensionata del chiasso dei nostri sistemi sociali, i quali con crescente ipocrisia affrontano gli scompensi che si accatastano gli uni sugli altri: le crisi governative, l’emergenza climatica, gli squilibri salariali, le disuguaglianze di genere, i pregiudizi, le xenofobie, le burocrazie, e così via. Quindi, come comportarsi con un nemico come questa ambigua e micidiale influenza? Perché non tentiamo di capire, prima di contrattaccare? Del resto, concepire il proprio avversario significa riassorbire anche se stessi. Siamo inermi e inerti: non abbiamo più neanche un dio da pregare. Non solo non otteniamo risposte: non sappiamo più formulare le domande. La logica, dunque, attraverso la quale si muove Bassi è quella non del tutto originale ma pur sempre vincente dell’alienato pirandelliano graziato da un’epifania che disattende il corso borghese delle cose. Poi oddio, c’è da dire che questo è un matto molto sinistrorso, e quindi almeno politicamente c’è della consapevolezza anche piuttosto rivendicata, tant’è che quasi si celebra il virus, sublimandolo, perché contro il capitalismo ha combattuto più lui in dieci mesi che la sinistra in settant’anni. Filosofo o clown? Mah, forse filosofo e clown. Poi abbiamo dei passaggi di carattere coprologico che sembrano citare il Mieli politico e psicanalitico degli Elementi di critica, perché effettivamente cosa ci sarebbe di strano nella coprofagia se già tutti i giorni accettiamo (e talvolta anche di buon grado) di ingurgitare e consumare rapidamente qualunque artefatto figlio della logica consumistica? Lo so, è disgustoso, è atroce, ma non gli si può dare neanche torto. Quindi, di nuovo, saggio o folle? Eh, ambedue. E poi per certi versi è pure simpatico, Bassi, di quella simpatia genuina dell’anziano signore con cui scambi due chiacchiere mentre si è in coda insieme dal prestinaio, o ancora di quella gioviale baldanza contagiosa che illumina la conversazione col matto del villaggio quando questo sceglie di sedersi di fianco a te, al bar: un cicchetto pagato in cambio della sua saggezza. Intendiamoci: il suo discorso non è particolarmente innovativo; non c’è tanta più avanguardia (coprofilia compresa) di quella che ha militato e milita in tanti giornali, e che militerebbe nei cinema, nei teatri, nei musei, se solo fossero aperti. Certo è, comunque, che anche al più sensibile di noi, anche al più erudito, fa comunque bene ripassare certe lezioni basiche sul mondo e i suoi controsensi: dispiace solo, ma d’altronde lui non ne può nulla, che questi ragionamenti non riescano mai ad aprire una breccia nella controparte villana della società, che non veniva a teatro prima della pandemia… figuriamoci se ora lo guarderà in streaming. Se poi Bassi si rovescia addosso un vaso di miele per attaccarsi delle piume sulla pelle nuda, allora per un attimo ti chiedi: dove sono? A casa della Abramović per la merenda? O sarà mica una residenza artistica di Giovani Muciaccia? È chiaro che Bassi voglia rendersi ridicolo per dimostrarci che in realtà lo siamo tutti, soprattutto nel momento in cui aderiamo ad un unico assetto socioestetico senza lasciare che sorga in noi il benché minimo dubbio. Siamo ridicoli, perché crediamo di detenere il potere del cosmo; siamo post-religiosi ma dell’agnosticismo esperiamo gli aspetti più immorali. Siamo ignoranti, vacui, meschini: lo sappiamo e fingiamo che vada tutto bene. E il peggio è che crediamo che There Is No Alternative, per citare il diktat di una neoliberista convinta.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Cristiano Costa