Torino, “Amore ricucito”: lo spettacolo conclusivo del Teatro Stabile
Dopo la quarantena per il cast de La casa di Bernarda Alba, che doveva andare in scena al Carignano, siamo giunti all’ultimissimo spettacolo targato Stabile prima del DPCM che richiude i teatri, i cinema, le palestre. Ma, beninteso, non le chiese. Per fortuna è stato uno spettacolo piacevolissimo, così almeno abbiamo potuto chiudere in bellezza. Son state sei le repliche, dal 20 al 25 ottobre, al Teatro Gobetti, in via Rossini: un posto poco noto, che mantiene sempre la sua allure fatata, con quelle graziosissime muse dipinte tutt’attorno alla platea; un’allure che permane nonostante l’atmosfera spettrale che nasce con i due posti di distanza fra uno spettatore e l’altro. In scena, “Amore ricucito“, un testo frizzante e impetuoso dello sceneggiatore scozzese Anthony Neilson. Sul palco, puntuali e attenti, Valentina Virando e Alessandro Federico. Entrambi molto calati, molto meticolosi: colpiva il loro rigore, la professionalità, che in ambito teatrale è però quanto di più cangiante, mutevole. La regia porta la firma di lui, Federico, ma è evidente che lo studio della pièce e della sua adattabilità è stato affrontato insieme, se non del tutto almeno in parte: un lavoro alla pari, compartecipato fra complici, conniventi in un’unica vincente visione narrativa.
Cosa siamo disposti a fare per riparare qualcosa che si è rotto? In una casa che sembra una scatola da cui non si riesce a uscire, vediamo Abby e Stu, che tentano in tutti i modi di aggiustare una vita labile, che non si risolve mai, sempre piena di sbagli e recriminazioni. Il montaggio dello spettacolo non segue un tempo lineare, ma accavalla e modifica i ricordi. (…) I due protagonisti passano attraverso ruoli lontani e rapporti crudeli, tanto che lo spettatore sarà costretto a chiedersi, e poi a scoprire, il vero motivo di questo continuo gioco al massacro, fino alla rivelazione finale che ribalterà la visione degli accadimenti. (…) Inizia così la scheda di sala, che forse non è particolarmente accattivante ma che di certo accomuna molte delle storie imperfette che si annidano fra le poltrone e che riguardano pressoché chiunque nel mondo reale fatto di lavori estenuanti, scadenze da rispettare, reputazioni da difendere. Anche se il dramma che infilza questa coppia è in molti sensi privato: un figlio; che facciamo, lo teniamo? Ma se non siamo in grado di badare a noi stessi, come potremo occuparci di un bambino? Non sarebbe più saggio aspettare? Anni fa eravamo praticamente d’accordo sul fatto che la nostra è una scopata in un oceano infinito di scopate… Ma posto che l’umiltà è ancora una virtù più che elogiabile, per quanto sottovalutata, forse bisognerebbe arrendersi alla realtà e rinunciare alla famiglia nel senso religioso del termine. La narrazione si interrompe, si fa frastagliata, e il passato irrompe con la forza bulinante di ciò che non si può ignorare: persino la violenza, le urla, le sberle, gli insulti più aberranti; tutto ritorna come un rigurgito sopito per troppo tempo, come un rancore trascurato ma mai davvero superato. E questa casa, queste quattro pareti asfissianti da cui trasudano le nostre parafilie irrisolte, come potrebbero ospitare un bambino? Questo non è il posto per un innocente sul quale proietteremo tutti i nostri squilibri. Più che adeguata, in questo senso, la scenografia: uno stretto cartonato occluso di una carta da parati triste, avvizzita; uno sgabello, una lampada, e una processione infinita di bottiglie, bicchieri, calici, colmi di quell’alcol che si fa indispensabile quando c’è da prendere una decisione importante che riguarda entrambi. Altrettanto interessante la playlist riprodotta ossessivamente e che coinvolge I Giganti, Mannarino, Gino Paoli, Celentano, i Pooh, Bobby Solo.
Una rappresentazione davvero meritoria, che indaga il senso stesso della relazione postmoderna, dove si sta insieme perché lo si sceglie, perché ci si sceglie, e non perché qualcuno si aspetta che procreiamo, che mandiamo avanti un cognome. Le relazioni come nidi di un progresso infruttuoso; rapporti privi di vincoli sociali, così tanto scardinati da poter essere consumati in fretta per poi passare al prossimo o alla prossima, in un turbinio endogeno dove la monogamia non solo non serve più a niente, ma forse è addirittura deleteria. Eppure, il fine ultimo di questo testo è proprio la volontà di instillare il dubbio che forse stiamo sbagliando qualcosa: chiedersi come possono sopravvivere le relazioni (d’amore ma, a questo punto, anche quelle amicali) se non abbiamo mai niente da perdere, se vale tutto. E comprendere se davvero non perdiamo niente, ogni volta che rinunciamo a qualcuno per accidia o ignavia: è davvero tossico quel legame, o forse non ci stiamo impegnando davvero fino in fondo per capire l’altro, per aiutarlo, curarlo e vivere un po’ più sereni insieme? Poi, per carità, ad ognuno di noi l’ardua sentenza. Certo, se possiamo, cerchiamo almeno di non essere individualisti, perché è anche nel rispetto del prossimo che risiede una porzione della nostra letizia più intima.
Davide Maria Azzarello