TEMPI NUOVI – Ennio Fantastichini e Iaia Forte al Teatro Nuovo di Verona

Chi non ha mai ricevuto una telefonata disperata dal proprio genitore che non riesce ad accedere a internet o a inviare un messaggio dal proprio cellulare, alzi la mano. Si sorride all’entrata in scena di Ennio Fantastichini, interprete di Giuseppe, storico saggista, dipendente dal giovane figlio per questioni tecnologiche. La scenografia imponente di Paola Comencini, con cataste e file disordinate di libri, vuole fare da cornice a un passato che sembra volersi chiudere su se stesso senza afferrare il cosiddetto nuovo che avanza. Tempi nuovi, di Cristina Comencini, è in scena al suggestivo ottocentesco Teatro Nuovo di Verona, fino al 15 aprile.
Nuova sembra essere la giovane generazione dedita a smartphone, pc, navigazioni virtuali, linguaggi complicati, sostenuta dal figlio Antonio, interpretato da Nicola Ravaioli, che ingaggia discussioni sterili col padre. Sono due stranieri che cercano di comunicare: si discute di una scrivania virtuale che non può scomparire perché non è mai esistita, la tecnologia è uno spazio in cui esistono relazioni tra oggetti per cui nulla può dissolversi. Da una parte ci sono i libri, ordinati catalogati, saperi immensi che sono stati studiati e appresi. Dall’altra ci sono dita che smanettano, informazioni rapide e confuse, senza fonti né note. Il padre detta la ricerca storica al figlio, cercando di mostrargli come sia fondamentale la creazione di un proprio pensiero critico, confrontando anche testi diversi, ma la lotta tra noi e voi cade inesorabile. La madre Sabina, interpretata da Iaia Forte, è una giornalista che per ovvie ragioni si è dovuta adattare al progresso, sacrificando e rendendo minime le notizie. Le informazioni devono essere veloci, accattivanti, estremamente comprensibili a tutti. Cerca di convincere anche il marito ad affacciarsi alla nuova era ma Giuseppe contempla una memoria di sapere che racchiude nomi, date, filosofie, personaggi, storie infinite da narrare. Da una parte c’è la Storia, dall’altra ci sono le storie che ora devono essere condensate, ridimensionate. Non è un problema per lo storico che può continuare a vivere sepolto dai libri, mentre la giornalista ha il dovere di adattarsi all’attualità perché il sistema lo richiede.
I tempi vecchi sembrano essere quelli dello studio e della fatica dell’apprendere, un tipo di curiosità che i giochi tecnologici sembrano aver cancellato. Pare che il figlio semplicemente sopravviva, senza ideali, senza un’idea d’amore e qualche accenno di sesso da consumare per divertimento e amicizia. La figlia Clementina, interpretata da Sara Lazzaro, ha tipiche discussioni con la madre, finché non eroderà le sue certezze d’avanguardia con una forte rivelazione. Si parla di famiglia borghese, di omosessualità, di fecondazione assistita, di album di fotografie.
Si susseguono molti temi nello spettacolo ed è forse proprio questo il punto debole di tutto l’impianto. Il cambio scena mostrerà al pubblico la scomparsa dei libri e un cambio repentino di Giuseppe che non viene però giustificato e quindi è necessario operare una forzatura mentale per adattarsi al nuovo personaggio. Cristina Comencini dichiara, in un’intervista a Repubblica, che l’adattamento cinematografico del copione non sarebbe possibile per i colpi di scena che dovrebbero essere giustificati e dotati di maggior realismo, a differenza del palcoscenico teatrale che accetta il coup de théâtre. Ma dipende. In questo caso il pubblico è rimasto incerto, non ha capito perché non è stato accompagnato, non ha potuto emozionarsi non potendo condividere le vite nuove dei personaggi e quindi il tutto risulta artificioso e poco credibile. A teatro si crede finché non si spezza l’ingranaggio e uscendo dalla storia per pochi secondi, si rammenta che è una finzione. I tempi nuovi sembrano confusi perché ci sono molte idee e potenzialità, sicuramente attuali, ma da sviscerare in più spettacoli. Non ci si addentra, si rimane perplessi, il pubblico all’uscita rumoreggia frasi come mi aspettavo qualcosa di più elaborato: gli argomenti trattati sono complessi e necessitano di complessità, anche in una commedia tradizionale. Gli attori sono quasi sprecati, tra dialoghi comuni e simpatici ma è tutto molto superficiale. Sicuramente è uno spettacolo godibile che strappa risate e che fa riflettere ma è come a scuola, quando l’insegnante ti dice che sei intelligente ma non ti applichi.
La nota musicale con Ci vuole un fiore, di Sergio Endrigo, è una scelta interessante ma probabilmente è il punto da cui ripartire per correggere questo copione che volendo affrontare le novità del terzo millennio, rimane invece vecchio, confuso e lento.
Silvia Paganini