Telemann e il suo Pimpinone all’Arsenale di Torino
Martedì, nel cortile dell’Arsenale di Torino, c’è stata la seconda e ultima replica di Pimpinone ovvero le nozze infelici. Noi lo abbiamo visto sabato scorso, il 24 luglio, e ci siamo divertiti molto. Dopo La serva padrona di Pergolesi, il Teatro Regio ha inserito nel cartellone estivo quest’altro intermezzo settecentesco proteso tutto verso un divertissement squisitamente fine a sé stesso. Nato come riempitivo tra gli atti del Tamerlano di Händel e plasmato su un’opera precedente e omonima di Tomaso Albinoni su libretto di Pietro Pariati, Pimpinone oder Die ungleiche Heirat venne poi musicato da Georg Philipp Telemann: compositore sassone nativo di Magdeburgo, autodidatta, autore prolifico e dimenticato. Presentata nel 1724 al King’s Theatre di Londra, quest’operetta riscosse un notevole successo, che convinse peraltro Telemann a trarne un sequel (i cui spartiti, tuttavia, sono andati perduti). Sepolto col realismo e riscoperto nel Novecento, è oggi considerato da molti esperti un piccolo capolavoro comico. La trama, nella sua essenza, non si discosta granché dall’altro intermezzo sopracitato: Vespetta, scaltra cameriera di umili origini, convince il vecchio Pimpinone a sposarla. Prevedibilmente, il matrimonio giova a lei quanto scontenta lui, perché ovviamente Vespetta è superficiale, pretenziosa, viziata.
La messinscena torinese è esilarante, sì, ma la regia non rinuncia ad un assetto estetico di prim’ordine, né trascura il ruolo del teatro come mezzo di diffusione culturale. La squadra è la stessa de La serva padrona: Mariano Bauduin in regia, Claudia Boasso per le scene, Laura Viglione ai costumi, Andrea Anfossi alle luci. A livello visivo, tutto si risolve col vincente realismo che rassicura il pubblico, ma rimane encomiabile l’attenzione al dettaglio: i fiori adagiati fra le finestrelle dell’impalcatura lignea riproducono i balconi di una via cittadina ampliando lo spazio d’azione, l’arredamento è impeccabile, gli abiti sono sgargianti e bislacchi come richiesto dalla trama stessa, il pannello sullo sfondo suggerisce l’idea stereotipata del tipico palazzo signorile settecentesco. C’è poi la logica del teatro nel teatro, col piccolo palchetto di burattini posto a fianco della struttura di legno. Dal punto di vista canoro, invece, la situazione è pressoché ineccepibile. Innanzitutto Francesca Di Sauro, mezzosoprano, risolve con disinvoltura la parte da soprano che è chiamata ad interpretare. Opportunamente frivola nella resa del personaggio, affronta a testa alta tutte le sue partiture e collabora egregiamente con Marco Flippo Romano, il quale a sua volta è il Pimpinone perfetto: aguzza barba canuta, fez nero, tunica viola, avidità, opportunismo. Sempre lodevole, costante, veemente, diventa indimenticabile quando giunge il momento del So quel che si dice, e quel che si fa, in cui (da solo) ricrea un trio di voci: la sua, e quelle di due signore che si lagnano dei mariti, ottimamente falsettate fra le fasi baritonali del proprio personaggio. Entrambi, Di Sauro e Romano, affrontano con eleganza la breve vicenda, senza mai tentare di sorpassarsi e anzi cooperando agilmente. Completa il cast Pietro Pignatelli, prima mendicante e poi passeggiatrice. Infine, va menzionato Giulio Laguzzi, direttore d’orchestra, che ha svolto un lavoro adeguato, puntuale, creando un’atmosfera favorevole alla resa dei testi. Un’unica, inevitabile rimostranza: gli schermi sui quali dovevano apparire i sottotitoli sono rimasti ininterrottamente spenti per tutta la durata dello spettacolo, per cui molti spettatori si sono ritrovati costretti a scaricare il libretto dal sito del Regio per seguire le battute dai propri cellulari.
La stagione prosegue stasera con il concerto di mezz’estate diretto da Juraj Valčuha, che è già tutto esaurito.
Davide Maria Azzarello
Fotografia Diego Diaz Morales