“Tavola tavola, chiodo chiodo…”: un magistrale Lino Musella ricorda Eduardo De Filippo
“Che cosa vuol dire essere attori? Ce ne sono alcuni che imparano la parte a memoria e la dicono. Punto e basta: e si considerano attori. C’è, invece, chi la interpreta, dandogli molto di sè. Questi è il vero attore, perché questa possibilità misteriosa di comunicare uno ce l’ha o non ce l’ha”. ( Sipario, 1980)
Tuonava così Eduardo De Filippo, esempio senza pari di genio e franca umanità, lui che più di ogni altro ha fatto del Teatro il sacrificio di una vita intera. Ed è sul solco della sua lezione senza tempo che si plasma la magistrale prova di Lino Musella in “Tavola tavola, chiodo chiodo …”, al Teatro Vascello fino al 5 dicembre. Cento minuti di devozione all’arte teatrale, racchiusi in una partitura di rarefatta bellezza, che svela con grazia la sfera più intima di un instancabile Eduardo, sempre in balìa di vittorie, fallimenti, e delle molte, troppe battaglie contro i mulini a vento, dannatamente ostinato nel voler costruire un teatro di carattere universale per la propria città. Il titolo dell’opera riporta il finale della dedica a Peppino Mercurio, storico macchinista di Eduardo, incisa su una lapide tuttora posizionata sul palcoscenico del San Ferdinando, tirato su, tavola su tavola, dopo i bombardamenti nel 1943. Un omaggio il cui senso più alto sgorga in tutto il lavoro di Musella (alla drammaturgia ha collaborato Antonio Piccolo, mentre Maria Procino si è occupata dell’analisi storica del materiale), frutto di un certosino intreccio di lettere, appunti e discorsi appartenenti al gigantesco capocomico napoletano. Ed è onorando la sua memoria, che Musella “si complica la vita” in scena, lotta contro la prevedibilità, creandosi trappole senza sosta. La sua è una reale confessione del corpo, un corpo dilatato, sull’onda irrefrenabile della peripezia. Sta in bilico sul cilindro, come un acrobata alla ricerca della gag giusta, accende e spegne candele, mette insieme rettangoli di legno, accompagnato dalle musiche originali del bravissimo Marco Vidino. La stessa scenografia (Paola Castrignanò) si offre al nostro sguardo meravigliato, grazie alle luci di Pietro Sperduti, accogliendoci come un’enorme scatola magica, arredata da un mobile-baule, da uno studiolo dotato di piccola balaustra a semicerchio, in cui sono custoditi i segreti del carteggio, e da una ringhiera di metallo che si fa cella, la stessa da cui gli adolescenti del carcere minorile dell’Istituto Filangieri si erano rivolti ad Eduardo senatore, per ritrovare una strada da percorrere nella vita. Graticcia, palco e quinte sono regni della sospensione, sempre pronti a concedere il lusso di scoperta e di stupore. Al centro, invece, campeggia maestosa un’architettura in legno, riproposizione del San Ferdinando, tenuta a mezz’aria da alcune cordicelle, come tengono col fiato sospeso i telegrammi che giungono dal Ministero, a incorniciare una complessa pagina di storia a cui Musella dà voce con controllo, coscienza e intuizione viva, ricorrendo ai fondamentali del manuale d’attore, caro a Eduardo: “Per far commuovere il pubblico basta un gesto della spalla (…) Importante è il fraseggiare e non la frase!”. Attraverso brani estrapolati dall’epistolario, affiorano pian piano dalla tensione immaginativa i ritratti di Eduardo Scarpetta, di Pirandello e del fratello Peppino. La lettera a quest’ultimo è un momento di assoluta tenerezza, in cui ogni parola sposa il suo suono in un matrimonio d’amore: “Io voglio tenderti la mano, ma con un chiarimento esauriente, onesto, sincero. Se tu mi vuoi bene come ai primi tempi della nostra miseria, vuol dire che nulla puoi rimproverarmi (…) mentre io, e questo è il mio più grande dolore, non ti voglio bene come allora: ti temo (…) Scusami se ti ho parlato così, ma è la maniera migliore per far diventare uomini due fratelli, e fratelli due uomini”. Il fiume del discorso abbraccia silenzi improvvisi, celebra il ghigno farsesco, fino a toccare picchi di denuncia, come ben si evince dai toni della dura filippica del 1959, inviata al Ministro del Turismo e dello Spettacolo Umberto Tupini, dove un Eduardo amareggiato, difende strenuamente le condizioni di autori e attori “due categorie, fra le più osteggiate e umiliate dalla camorra teatrale imperante”, e ammonisce su quanto sia importante per l’umanità intera continuare a nutrirsi, oltre che di fettuccine, canzoni, sermoni e competizioni sportive, anche delle emozioni e dell’insegnamento che l’arte può offrire.
Il pensiero dell’enorme responsabilità provata verso il pubblico ritorna anche nelle ultime battute, mentre il modellino in lontananza del San Ferdinando si sfascia, metafora degli insuccessi in cui si imbatte l’artista impegnato a smuovere la politica e le Istituzioni, ma che non si stanca mai di rialzarsi e di mettersi a fare, con pazienza, “o presepio” un’altra volta. E noi, minuscoli, fragili, spettatori assistiamo applaudendo muti, piccole stelle nel baratro della scena, di fronte alla bellezza che un grande attore ci ha appena donato.
Diana Morea