“Supplici” di Euripide, la tragedia greca delle donne
Il Teatro Sociale di Como ha ospitato un grande classico di Euripide, “Supplici”, con la regia di Serena Sinigaglia e una produzione di ATIR – Niddodiragno/CMC. Euripide non ha avuto molto successo in vita, infatti ha vinto solo cinque competizioni drammaturgiche nonostante abbia scritto più di novanta drammi, tuttavia ha avuto una grande fortuna postuma ed è giunto sino a noi un gran numero di opere grazie alla tradizione manoscritta medievale.
Sette donne di Argo chiedono ad Atene di seppellire i propri figli morti in una battaglia contro Tebe. Si tratta di un pretesto per celebrare la democratica Atene, in un angoscioso periodo in cui la capitale dell’Attica ha perso la guerra del Peloponneso contro Sparta, e per difendere il valore della pace in un’era piegata dai combattimenti. Atene tuttavia non viene contrapposta a Sparta, ma ad una Tebe tirannica. L’eroe Teseo, presentato come un difensore dei deboli, reca ulteriore lustro ad Atene. Euripide è inoltre critico nei confronti della propria città, infatti illustra anche i difetti della democrazia ateniese. Al centro della tragedia trionfa una maternità in lutto per i figli, il dolore più grande per una donna che viveva nell’antica Grecia. Come tema minore si potrebbe citare il contrasto tra i giovani, energia vitale della società, e gli anziani nel ruolo di madri o di governanti della città.
La traduzione di Maddalena Giovanelli è caratterizzata da un linguaggio moderno e la recitazione è prosastica, sebbene non abbia rinunciato alla solennità della tragedia. L’opera è stata interpretata da sette donne che sono rimaste sul palcoscenico per l’intera durata dello spettacolo: Francesca Ciocchetti, Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan, Debora Zuin. Due di loro hanno recitato non solo nel coro, ma anche nel ruolo di tutti i personaggi della tragedia, conformemente a quanto accadeva nell’antichità. In Grecia calcavano il palcoscenico soltanto attori maschi, ma la regista ha scelto un cast di sole donne, forse perché le supplici sono personaggi di genere femminile e la tragedia parla soprattutto di donne. Si tratta dunque di una scelta femminista? Solo la regista potrebbe confermarlo, l’unica certezza è che l’opera dimostra come il genere dell’attore non debba necessariamente coincidere con quello del personaggio, soprattutto se un artista sa fare il suo mestiere. Il coro ha recitato soprattutto attraverso la gestualità e il corpo; non si tratta affatto di una caratteristica che lo rende un ruolo secondario, infatti restare in scena senza dire nulla è altrettanto impegnativo che avere una parte da protagonista. Quando il coro doveva prendere la parola, non sempre parlava all’unisono, spesso infatti i versi venivano spartiti tra le attrici. In alcuni casi riveste un ruolo fondamentale per il coro la musica, in quanto le supplici hanno cantato alcune battute. È assente la figura del corifeo.
Le sette interpreti sono tutte vestite allo stesso modo: indossano un vestito blu con dei brillantini e alcuni elementi marroni e un copricapo. Per interpretare i personaggi due attrici hanno indossato nella parte superiore del corpo un oggetto distintivo, solitamente di colore marrone, una tinta che richiama il colore del tronco d’albero posto al centro del palcoscenico. Tale elemento della scena svolge anche la funzione di pulpito. Le scenografie di Katarina Vukcevic evocano dunque la terra e le radici, dei valori fondamentali per gli uomini del passato. Alessandro Verazzi ha inoltre creato un sapiente gioco di luci con dei riflettori posti ad altezza d’uomo ai bordi del palcoscenico; l’effetto chiaro-scuro è spettacolare. Una pira funeraria è stata evocata accendendo un piccolo fuoco sul palco e in certi momenti le attrici impugnavano delle torce, perciò la luce è stata portata sul palco attraverso molteplici espedienti.
La tragedia greca ha ancora molto da raccontarci, infatti Supplici parla di guerra, di democrazia e di maternità con la raffinatezza e la grazia della poesia più alta. Si tratta di un’opera di grande attualità, forse proprio perché i valori che trasmette sono eterni.
Valeria Vite
Fotografia di Serena Serrani