“Suite per Barbara Loden” – Il racconto a più voci Nathalie Legér
“Mi chiedo perché ti piacciano le cose tristi.”
A Nathalie Léger viene chiesto di scrivere “una nota biografica per un dizionario di cinema”, poche parole senza troppo sentimento” su una vita intera, quella di Barbara Loden. E comincia così la ricerca di una vita sconosciuta, la ricostruzione di fatti e voci per mettere insieme i pezzi di un puzzle che ricostruiscano le forme e i lineamenti della pin up, modella, regista e attrice che è stata Barbara Loden e a cui si sovrappone un altro personaggio, creato da “una notizia di cronaca letta sui giornali dell’epoca”, la protagonista del suo unico film del 1970 e interpretata da lei stessa: Wanda, una donna in bigodini. E allora ecco che si snodano due vite, che viaggiano in parallelo ma che si accavallano, si alternano. La prima è quella della Loden, nata nel 1932, attrice e seconda moglie di Elia Kazan. Bionda, occhi verdi, minuta e delicata, insicura ma sempre con il sorriso, l’altra è invece una donna che, dopo aver abbandonato marito e figli, inizia una relazione con un criminale che la coinvolge in una rapina. Lui morirà. E lei? Lei accetterà con gratitudine il suo destino, lasciando sconvolti tutti, e tra tutti anche Barbara Loden, che con questo film vuole placare i dolori, curare umiliazioni e paure, “quale dolore, quale senso di inadeguatezza nei confronti della vita può portare a desiderare di essere rinchiusi? come si può essere sollevati da una condanna alla prigione?”.
Una donna che si racconta attraverso la vita di un’altra, ma ben presto ci accorgeremo che di donna ce ne è una terza, il modello di Wanda; e un’altra ancora, se consideriamo che in questo libro c’è anche l’autrice stessa che ricerca e narra l’impossibile, forse inventando dato che non vi è alternativa, come le suggerisce Frederick Wiseman. Vite che, in fondo, si assomigliano?
“…impossibilità di dare un nome alla tristezza di esistere.”
“Suite per Barbara Loden” (La Nuova Frontiera, 2020, pp. 128, euro 15) è un racconto pacato, intriso di emozioni, ma dal tono rassegnato. Nathalie Léger cerca di non attraversare i confini delimitati dai fatti oggettivi, dalle poche certezze che ha in mano, creando frammenti di immagini che ci portano in ambienti e situazioni diverse, attraverso una scrittura che ci ricorda i dialoghi cinematografici, con scene che si alternano continuamente senza risparmiarci momenti crudi e reali, come la diretta conoscenza della vita e, soprattutto, della morte.
Marianna Zito