Su alcuni appuntamenti di MITO Settembre Musica a Torino
Torino e la musica classica vivono da sempre in una felice simbiosi. Dal 1978 Settembre è il mese di una delle rassegne più vivaci, e ancora oggi MITO Settembre Musica (che dal 2007 comprende anche Milano) si guadagna il suo posto nei discorsi degli appassionati grazie ad un’offerta variegata, molto curata, e diffusa fra auditorium e luoghi di sorta in cui si possa ascoltare: dalle chiese all’ex Dancing Le Roi di via Stradella. Col tempo si è sviluppata poi tutt’una rete di eventi collaterali al festival che animano la città e le sue biblioteche, le scuole, i mercati, gli ospedali, le case di riposo; e poi per le strade, nelle piazze. Così che la musica saturi l’aria: è questo l’obiettivo della direzione, come si legge sul sito nella parte introduttiva.
L’edizione di quest’anno, numero 46, è stata dedicata ad Anna Gastel, deceduta a gennaio dopo nove anni alla presidenza.
A Torino, il festival si è aperto venerdì 6 con la Nona di Beethoven diretta da Michele Spotti e interpretata dall’orchestra e dal coro del Teatro Regio, in una Piazza San Carlo blindata fin sotto i portici e nelle traverse. Stefano Massini, il giorno dopo, ha presentato Drink Jazz Suite – Una mitologia alcolica su Martini & Rossi, e poi di nuovo in Piazza San Carlo per Ludovico Einaudi. Toni Servillo racconta Puccini, Torino FC e AC Milan celebrano le vittime di Superga con le musiche di Crivelli, e così via. Di cose da fare ce n’è, insomma. Eppure è opinione comune che il programma di quest’anno sia troppo stringato rispetto al passato, e oggettivamente si può osservare un calo nella quantità, ma forse ne hanno sofferto solo i fedelissimi e gli sfaccendati, poiché la presenza ad ogni singolo concerto anche in questo caso richiedeva una certa dose di agonismo.
Invece val la pena di focalizzarsi sulla qualità.
A questo proposito, noi abbiamo avuto il graditissimo piacere di presenziare a tre concerti in particolare. Alle 20 di martedì 10 eravamo in via Rossini, all’Auditorium RAI Arturo Toscanini; il commendatore Gianandrea Noseda è tornato per dirigere la Filarmonica TRT con un trittico interdisciplinare: in apertura George Walker (1922-2018), primo afroamericano a vincere il Pulitzer, con Lyric for strings (5’), un lamento che condensa l’orgoglio con la speranza per l’emancipazione; e dedicato alla nonna, Melvina King, testimone dello schiavismo. Segue Alfredo Casella (1883-1947) con i due frammenti sinfonici tratti da La donna serpente (25’), nel cv del maestro dai tempi della direzione al Regio. Basata sulla stessa fiaba settecentesca di Carlo Gozzi da cui Wagner trasse Die Feen (Le Fate), La donna serpente del compositore torinese nasce balletto, diviene commedia plastica, e infine opera su libretto di Cesare Vico Lodovici: il re Altidòr s’innamora della fata Miranda, ma il padre di lei non è d’accordo e lo maledice con un singolare anatema – se il re a sua volta maledirà l’amata, questa diverrà un serpente. Le suites sono dinamiche e restituiscono un senso d’inquietudine molto forte, risultano moderne grazie alla passione di Casella per il contrappunto e la commistione con generi e strumenti meno lirici (marce, percussioni…). In chiusura, l’ipnotica Settima Sinfonia in la maggiore op. 92 (40’) di Ludwig van Beethoven (1770-1827), ovvero l’apoteosi della danza secondo Wagner. Sulla Settima, come ricorda anche Oreste Bossini sul programma di sala, è stato scritto molto, e per ovvie ragioni: siamo in una (pre)anticamera del Romanticismo; manca solo il trampolino della Nona. Bettina Brentano si immaginava di avanzare in testa ai popoli con la bandiera spiegata al vento, Berlioz sentiva nell’Adagio le lamentazioni del profeta Geremia nella valle di lacrime, spiega Bossini. Un successo fin dalla prima esecuzione, tanto che ancora oggi pure i profani potrebbero ritrovarsi a canticchiare la passacaglia dell’Allegretto senza conoscerlo razionalmente.
Sabato scorso, il 14, eravamo invece all’Auditorium Giovanni Agnelli nel Centro Congressi del Lingotto per Daniele Rustioni, che ha diretto l’Orchestre et Choeur de l’Opéra de Lyon in un doppio appuntamento da un’ora ciascuno, alle 19 e alle 21, con cocktail offerto durante la pausa. Il primo concerto si è aperto con Les eaux celestes (8’) di Camille Pépin, compositrice francese classe 1990 in equilibrio fra impressionismo e minimalismo. La sua sinfonia, Le acque celesti del 2022, è un poema in quattro parti: Tisser les nuages (Intrecciare le nuvole), La séparation, Les larmes perlées (Le lacrime impigliate), Le pont des ailes (Il ponte con le ali). Il brano, scrive Fiorella Sassanelli nel programma di sala, è ispirato a un’antica leggenda della mitologia cinese che racconta l’origine della via lattea. Vi si narra la storia dell’amore contrastato tra il bovaro del cielo e la dea delle nuvole: lei è la figlia del dio del cielo, incaricata di trarre dalle nuvole i tessuti degli dei, mentre a lui è affidata la cura delle vacche del cielo. Preda d’amore l’uno dell’altro, i due vengono entrambi meno ai rispettivi compiti. Il dio del cielo non ha altra soluzione per sedare lo scompiglio – gli dei non hanno più cibo né vestiti – che separarli attraverso una grande riviera celeste. È così che nasce la via lattea. Nulla, per fortuna, è perduto per sempre: i due amanti possono infatti ritrovarsi una volta all’anno, riuniti da un ponte che gli uccelli costruiranno per loro. Segue Pelleas und Melisande op.5 (50’) di Arnold Schönberg (1874-1951), con un organico monumentale e un carattere altrettanto solenne, imperniata su di un’armonia triste e soprattutto tendente ad un’atonalità difficile da digerire, ma d’altro canto è il 1905 e le dodecafonie sono lontane. Dietro le quinte ci sono Wagner e Strauss, senza dubbio, e tuttavia (o forse proprio per questo) il risultato è di difficile fruizione: tanti contrappunti e altrettanti contrasti di colore prosciugano la fluidità dal complesso di note. Non c’è soluzione di continuità fra i movimenti, ma una bizzarra alternanza fra lirismo ventoso e lugubre gravità. Tutto questo naturalmente concorre a far sì che l’auditore s’impegni: apprezzare è possibile ma serve dedizione, fiducia nell’orchestra e in un intelletto, quello di Schönberg, terribilmente lontano dalla nostra contemporaneità. Alle 21, Maurice Ravel (1875-1937) con le musiche per il balletto Daphnis et Chloé (60’), coreografato da Fokine e presentato allo Châtelet di Parigi nel 1912, Nižinskij nel ruolo di Dafni.
Infine, lunedì 16 settembre eravamo nell’auditorium del Grattacielo Intesa Sanpaolo per Harawi, chant d’amour et de mort del compositore nonché ornitologo avignonese Olivier Messiaen (1908-1992), di cui si ricordano forse più facilmente le produzioni pianistiche e orchestrali e il San Francesco d’Assisi, l’opera da duemila pagine (quattro ore) rappresentata postuma all’Opéra Garnier nell’83. L’harawi è un antico stile di canto amoroso di stampo precolombiano, Inca nello specifico, e qui s’interseca con molto altro: il surrealismo, il canto femminile ripensato in chiave ornitologica, una luce erotica, i dubbi sulla persona amata (si veda la biografia completa di Messiaen) e sulla religione. Ci sono dodici canti, e in ognuno la soprano solista deve lasciar emergere entrambe le voci degli amanti che discutono in una burrasca di onomatopee, ripetizioni, primitivismi, amore morte amore morte, e poi la deriva spirituale. Al pianoforte c’è Costanza Principe, la voce è della belga Katrien Baerts. Entrambe semplicemente ineccepibili, quasi avvinte nell’interpretazione.
MITO Settembre Musica si conclude oggi, domenica 22 settembre.
Ci vediamo l’anno prossimo!
Davide Maria Azzarello