“Stitching” al Teatrosophia di Roma
È Paolo Sannanelli il regista che porta al Teatrosophia di Roma, dall’8 al 10 dicembre, quella che da lui stesso è definita la commedia tragica Stitching, opera di non facile approccio creata da Anthony Neilson.
Sassanelli dirige i due attori Davis Tagliaferro e Lucia Bianchi in un susseguirsi di “quadri” di vita di tutti i giorni alternati a “quadri” di probabili flashback apparentemente scollegati tra loro, con l’intento di spiazzare e portare in poco tempo il pubblico fuori strada, riuscendoci ottimamente.
In principio viene presentata un abituale contesto di coppia, a tratti divertente, la storia di Abby e Stu i quali si trovano a fronteggiare una gravidanza inaspettata. Questo li porterà a decidere se andare avanti o meno con la gravidanza e a interrogarsi se sono davvero fatti l’uno per l’altra.
Il titolo Stitching rimanda chiaramente a una “cucitura” proprio per la volontà che hanno costantemente i due personaggi di ricucire e riparare la loro condizione, e non solo.
Alla semplice quanto spensierata situazione casalinga dei due, fatta di abituali litigi e battibecchi a centro palco e contraddistinta da una scelta registica a luci calde, si alternano in proscenio le scene a luci fredde, situazioni allucinogene e deliranti in cui i due personaggi navigano in un illusorio tempo passato. Almeno, in dapprima è ciò che l’autore fa credere: il pubblico ha come l’impressione che addirittura le coppie rappresentate siano due, distinte, due situazioni a prima vista differenti. Da una parte una coppia che parla della gravidanza e di cosa sarebbe giusto e sbagliato nella coppia; dall’altra parte due amanti, una prostituta e un cliente che si incontrano più volte per fare sesso e praticare dando libero sfogo alle perversioni più intime, con punte di eccesso di violenza sadomaso.
Piano piano però il pubblico viene messo faccia a faccia con la realtà: la coppia è decisamente la stessa e il susseguirsi della scena e della controscena procede in senso cronologico; il loro è un tentativo disperato di ricucire il rapporto attraverso un gioco di ruoli e messa in scena. Un figlio c’è – o c’è stato – ma a quanto pare è morto per loro colpe, perché “i bambini cadono” dice lui; ma anche questo non è dato per certo e l’autore è abile a lasciaci col dubbio. Probabilmente anche questo è frutto della mente dei personaggi, presumibilmente la morte del figlio è una metafora della morte della loro storia.
In 50 minuti di battute serrate, i due attori si donano totalmente all’autore e si mettono al servizio di un testo pervaso da continui cambi repentini di intenzioni – che è ciò che accade nella vita vera e decisamente arduo da ricreare in scena da attori – caratterizzato frequentemente da un gergo violento e scurrile e con i cambi scena pressoché privi di oggetti, una trappola che sovente lega gli attori e ne priva dell’autentica libertà interpretativa.
Questo è un teatro di parola, di intenzioni, di sguardi, di pause, di vita.
Un testo che richiede eccellenti capacità interpretative da parte degli attori, i quali vanno a scavare e a tirare fuori parte di quella propria parte oscura, che appartiene ad ogni essere umano e che ognuno tiene nascosta il più possibile, ma che è lì dietro l’angolo.
Tutto il lavoro registico è chiaramente sorretto da un testo scritto in modo eccelso, con un linguaggio affine a quello della nostra società più di quanto si pensi – il che potrebbe far apparire il tutto a un occhio inesperto più facile ma non lo è – e con l’aggiunta di un egregio lavoro attoriale e registico che si unisce all’anima del messaggio che il testo vuole trasmettere.
V. M.