Solo un’altra recensione su Bros, di Romeo Castellucci
Domenica scorsa, il 30 ottobre. Fonderie Limone, Moncalieri. Sono le tre del pomeriggio e sta per partire il secondo turno di Bros, azione para-teatrale del pluripremiato Romeo Castellucci. Un altro tutto esaurito per il Festival delle Colline Torinesi, ma forse perché non siamo solo a teatro. Siamo ad un evento mondano e lo sappiamo tutti. Il pubblico è diverso, più eterogeneo: tantissimi addetti ai lavori, ma per esempio anche molti più giovani del solito. Alcuni, difficile stabilire quanti, lo hanno già visto da qualche altra parte: lo spettacolo è nato l’anno scorso, alla Triennale di Milano. Chiunque ha detto e scritto la sua, e googlando bros castellucci già i titoli sono sensazionalistici. Per descriverlo, c’è chi usa l’aggettivo ctonio, e non in fondo, ma già all’inizio dell’articolo. L’avete fatto il classico? La situazione la conosciamo bene o male già tutti: la recitazione è rarefatta, la trama non esiste, un teatro attiguo alla performance per come ce la raccontano i manuali di storia dell’arte. Ispirato dall’estetica delle forze dell’ordine dispiegate in Francia al tempo dei gilets jaunes, il regista di Cesena ha reclutato venticinque persone che non sono attori e che non si conoscono fra di loro; ha dato loro un Indice Comportamentale (consegnato altresì agli spettatori) che riporta frasi come Sono disposto a credere di essere un vero poliziotto, Eseguirò gli ordini anche se mi sembrano contraddittori, …con estrema serietà, …anche se mi esponessero alla vergogna, …con freddezza sacerdotale. Il pamphlet si conclude con: L’esecuzione degli ordini sarà la mia oblazione, sarà il mio teatro. E va bene. Chiaramente, da qua, si dipanano alcune domande: è tutto improvvisato o esiste una logica dietro gli ordini impartiti via auricolare? Come ci si prepara ad uno spettacolo del genere, come si prova? La scheda di sala riporta che: L’attore è spettatore egli stesso di quanto viene facendo. Il nodo tra interprete e spettatore si stringe fino a soffocare ogni distinzione. La recita coincide con la vita […]. Nessuna improvvisazione, bensì il baratro di un presente assoluto.
Di seguito, alcuni snodi di quanto abbiamo potuto esperire noi. La scena è nera, desolante, minacciosa: solo due macchine mastodontiche, simili a delle cineprese, ronzano e ruotano per simboleggiare un mondo distopico e contemporaneo dove la tecnica domina sull’emozione. Fischi, interferenze, tintinnii di monetine. Le musiche sono di Scott Gibbons. Un anziano, un druido, ci parla in… greco? No, rumeno. È Dio? No, è il Geremia di Valer Dellakeza, attore rumeno. Con lui, altri due attori veri: Luca Nava e Sergio Scarlatella. Di qui, il caos: la polizia, in divise simil-anni settanta, porta avanti, parallelamente, una serie di violenze inaudite (per lo più simulate) e una sequela di tableaux vivants ontologici. Un manichino in un tappeto, una gigantografia di Beckett, armi, una macchina che emette vapore in relazione alle note di un pianoforte. Un poliziotto viene legato in posizione fetale con lo scotch, si mette carponi e gattona. Il vecchio beve mezzo bicchiere di latte e il resto viene gettato al centro del palco, dove un ragazzo nudo viene manganellato a ripetizione da due agenti che si danno il cambio: ad ogni colpo corrisponde un rintocco simile al suono delle slavine. Un neonato vagisce. Dentro un sacco nero, di quelli dell’immondizia, c’è un corpo che si dimena per un tempo che sembra infinito. Le azioni si accavallano, qualche dettaglio lo perdi. Poi però si sincronizzano tutti davanti ad un idolo di legno, dandoci le spalle e muovendosi all’unisono come nel nuoto artistico. Due cani, Manda e Elliot, assistono alla scena e guaiscono per il rumore: capiamo il senso, ma si poteva gestire meglio. Il pavimento viene sciacquato e il vecchio porta sul palco una testa di pecora, o di capra, idealmente finta. Ma il dubbio ti viene. Un ragazzo subisce l’annegamento simulato: sdraiato supino, i piedi più in alto della testa, lo tengono fermo e gli rovesciano due taniche in faccia. Orribile. Poi vittima e carnefici si abbracciano. Sparano tutti insieme: coreografia e morte. Un bambino, vestito anche lui da profeta, riceve un manganello: al suo cospetto tutti cadono a terra in preda alle convulsioni.
Spiegare non serve. Bros è una di quelle cose che ti colpisce allo stomaco e basta, e della quale in realtà non si può neanche scrivere. Perché al netto del significato principale – ovvero l’azzeramento della consapevolezza umana – tutto è avvolto in una vacuità lugubre e truculenta. Non ragioniamo più? Il pensiero critico è morto? Ma sarà mai esistito? Castellucci ricrea uno spaccato che attinge da così tante realtà che citarne alcune sarebbe un azzardo. Leni Riefenstahl? Sì, okay, ma allora persino Rhythm 0 di Abramović. I temi spaziano: il rapporto con la legge, la fiducia cieca imposta dal totalitarismo, l’eterna tensione fra ordine pubblico e libertà individuale. Però, allora, pure Robert Walser e il suprematismo di Malevič. O certe scene di Metropolis, il capolavoro di Fritz Lang. E poi la Bibbia, gli slogan, la propaganda. Il merito che va riconosciuto alla regia è quello di aver plasmato un segmento di spaziotempo in cui chiunque possa sentirsi sopraffatto e disgustato, e non da quel che vede, ma dalle strutture sociali che stan fuori dal teatro e che non cambiano benché sia evidente che non funzionino. E non c’è speranza, non c’è futuro, non c’è passato, non c’è più nulla. L’apocalisse è già accaduta e non ce ne siamo resi conto.
Davide Maria Azzarello