“SOFFRO MA SOGNO, PER QUESTO IO VIVO…” AMLETO TAKE AWAY DI BERARDI/CASOLARI ALL’ELFO PUCCINI
Sala illuminata, chiacchiericcio, interrotto all’improvviso da un’attrice – o un tecnico? –“Siamo pronti”? Chiede il buio alla regia, poi si occupa del faro centrale. Luce. Sul palco un ragazzo, alle sue spalle un pannello su cui sono fissate le tende di un sipario rosso. Come un Cristo medievale, il giovane appare dal nero, crocifisso nella cornice di quella cortina di velluto.
“Soffro ma sogno, per questo io vivo. […] Lenisco il dolore, sognando”.
“A dream of passion”! Il teatro. Sogno e passione. Passione, ovvero sofferenza. Con un monologo che è un lampo di immediata chiarezza sulla natura e la motivazione profonda di questa arte per il suo interprete, irrompe sul palco”Amleto take away”, l’ultimo spettacolo della Compagnia Berardi Casolari, nato in co-produzione con il Teatro dell’Elfo, dove è adesso in scena fino a domenica 9 dicembre.
Uno spettacolo che sfugge a interpretazioni univoche, che corre a perdifiato lungo i binari di una calibratissima drammaturgia dal carattere mutevole e fluido, in cui l’autobiografia di Gianfranco Berardi si fonde con il più classico dei testi, e proprio attraverso lo specchio di Amleto si rilegge e si interpreta, mentre l’attitudine amletica diventa la chiave per una disincantata e urgente fotografia del nostro vivere contemporaneo. Fluidi anche i toni, per cui tragedia e commedia, ironia e introspezione, risata e riflessione si alternano costantemente, in un arco emotivo e narrativo che conserva sempre una felice imprevedibilità. Sceso da quella croce iniziale, Gianfranco è Amleto, il ragazzino con la maglia nerazzurra, che gioca a contare i granelli di polvere e carbone nei capelli bianchissimi del padre, operaio dell’ILVA. Amleto è Gianfranco che da grande vuole fare l’attore, e il sogno non si spezza anche dopo la diagnosi della malattia che lo porterà alla cecità. Quel ragazzino è adesso l’attore che in scena scandaglia l’animo umano, che ci fa ridere, ma di una risata che ci inchioda davanti al riflesso della nostra condizione. Come il Principe di Danimarca si sente condannato da un “maledetto destino” a rimettere in sesto i cardini di un secolo corrotto, così l’Amleto di Berardi Casolari scandaglia le storture in cui sta cadendo l’uomo oggi, nel secolo che nel frattempo è targato XXI.
“To be o FB, questo è il problema!”. Essere o apparire? Ecco il nuovo dubbio amletico.
E poi, corpi che sono vicini ma non vengono mai in contatto; mondo del consumo sempre più veloce, sempre più istantaneo; noi, abituati ad avere e a prenderci tutto e subito, voracemente, take away perpetuo, ma poi, in fin dei conti, non sappiamo cosa vogliamo veramente; amore o menzogna, costruzione o verità; “È tutto un gran muoversi. Ma siamo tutti immobili…” Infine, vedere o sentire? “Quello che non vedi non esiste. Ma quello che senti?” Qui sta la radice dell’esistere, e il nucleo dello spettacolo. Essere è Sentire. O, parafrasando di nuovo un classico, ma della filosofia, sento dunque sono. In una società dell’immagine e dello spettacolo – ossessione della vista – a questo ci esorta l’Amleto nella rilettura del duo di autori, al recupero della capacità plurisensoriale, della lentezza che richiede provare un sentimento, al ritorno ad un’autenticità dell’esistenza. La Casolari bagna il volto di Amleto con dell’acqua durante un monologo. Azione semplicissima, eppure così complessa. Poiché, cosa sono gli attori? “Lacrime vere, persone false. Lacrime false, persone vere”. Sogno, passione, sofferenza. Nient’altro.
Sulla scena di questa tragicommedia travestita da teatro pop, Gianfranco Berardi è un Amleto frenetico e frenetizzato in maniera travolgente, corpo senziente per eccellenza. (Di appena qualche giorno fa, peraltro, la notizia della nomination come Miglior Attore o performer dell’anno ai Premi UBU 2018). Gabriella Casolari, in tuta quasi operaia – che rimanda la memoria al Teatro Popolare voluto da Vittorio Gassman – sublima il gioco metateatrale diventando sul palco contrappunto dell’azione e fondamentale funzione per lo svelamento minuzioso della macchina scenica, quasi a ricordarci che in teatro “tutto è finto, ma niente c’è di falso” (come scriveva Gigi Proietti). Testo classico e autobiografia, discorso sul contemporaneo e teatro che riflette su se stesso. Intenso nella resa, stratificato e complesso nella lettura, Amleto take away è flusso di coscienza attuale per affrontare la domanda fondamentale: perché facciamo tutto questo, ogni sera, sul palcoscenico di un teatro, che poi non è tanto diverso da quello della vita?
Mariangela Berardi
Foto di Antonio Ficai