“Smarrita e soave” sotto l’Angelo di Castello
Plauso unanime va fatto alla rassegna “Sotto l’Angelo di Castello: danza, musica, spettacolo”, che dal primo luglio al 25 settembre ravviverà uno tra i siti più suggestivi della Capitale, Castel Sant’Angelo, valorizzandone la portata storica e artistica, patrimonio di incommensurabile bellezza. L’iniziativa è stata fortemente voluta dalla Direzione Musei Statali della Città di Roma e il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo e Passetto di Borgo, diretti da Mariastella Margozzi. Il progetto culturale è stato, invece, curato e organizzato, per conto della Direzione Musei Statali della città di Roma, da Anna Selvi.
Tra le varie proposte musicali e teatrali illustrate, la nostra redazione ha avuto il piacere di assistere, domenica 10 luglio alle 21.00, alla performance teatrale di e con Roberto Latini “Smarrita e soave”, che ha teso riportare alla luce una delle più spiccate qualità dell’imperatore Adriano, protettore delle Arti, della Letteratura e della Poesia, dote spesso messa in secondo piano dalla storia travagliata del mausoleo e delle sue trasformazioni. Lo spettacolo, accompagnato dalle musiche di Gianluca Misiti, eseguite magistralmente dal vivo dal violino di Luisiana Lorusso e il violoncello di Claudia Della Gatta, ha presentato un percorso ideale e drammaturgico dedicato all’animula (vagula blandula) di Adriano, che riecheggia maestosa nel monumento a lui dedicato, diventando il ponte tra passato e presente. Il palcoscenico è apparso come un territorio fuori dalla realtà, grazie anche alle splendide luci dirette da Max Mugnai. In questa atmosfera fatata, una pioggia di versi ha incantato gli astanti. Da Gozzano a Neruda, passando per Foscolo, fino a Mariangela Gualtieri. Ancora una volta la voce di Roberto Latini è diventata spazio scenico assoluto, riuscendo a crearsi e farsi recepire anche attraverso le stasi, le cesure, i silenzi, le assenze, il sospeso. Una voce, come una pasta piena di corpo erotica che considera vano ogni altro sistema di traducibilità. Una voce che evoca, non mima, esce fuori “da dentro”, non si racchiude e non conclude, che ha smarrito il principio di realtà e regredisce alla “verità lirica” di un’ infanzia perenne, che trasforma il teatro in gioco della sincerità, della solitudine e non in perlustrazione o rifacimento o controllo del reale. È questo il prodigio di cui è capace Latini, dare conto che esiste anche un’ “altra voce”, una sorta di “essere fonico” del soggetto che si ama attraverso un cantarsi più che attraverso un dirsi, una voce “tautofonica”, di sé che dice a sé, e che eccedendo la forma, non appartiene all’orizzonte della dicibilità. In tal senso Blumner parlava di Engelsprache “lingua angelica”, contro il proprio tempo malato di visività difendeva la magia del suono. Così l’ultracorpo di Latini, come altro fuori da sè, ha imparato a scomparire nei versi per donarli al pubblico, perché la lettura a voce alta è un rito collettivo capace di unirci, rendendo esplicito il bisogno di vivere una intensità insieme, ed è così che nell’atto stesso del suo darsi, la poesia si fa evento. Un pensiero questo caro anche alla poetessa Mariangela Gualtieri, secondo la quale “la poesia crea comunità – e perciò – va urlata, va cantata e recitata per salvare la nostra specie”.
La sfida è dunque accorciare per quanto possibile le distanze tra una poetica dell’oralità poco accessibile e lo spettatore per il quale non è sempre agevole addentrarsi nel verso. Il ritorno alla poesia deve essere allora soprattutto un ritorno al luogo dove le parole vengono in qualche modo dotate di nuova linfa, di una nuova ombra, di un proprio mistero. Ed è questo l’augurio che si percepisce a fine spettacolo, l’invito ad essere capaci, come capace è stata la voce del poeta nel suo incanto fonico, mentre ora si allontana là “dove il crepuscolo corre cancellando statue”.
Diana Morea