“Smara. Taccuini di viaggio” di Michel Vieuchange
“Cammino. È il mio unico scopo – stare al passo. Per me non c’è più giorno né notte. Un solo bisogno: arrivare”.
Paul Bowls lo definì “un terribile pellegrinaggio nel regno del Nessun luogo”.
Ma quali sono i fatti? Michel e Jean Vieuchange, due fratelli appartenenti alla borghesia di Nevers – come ci spiega Antoine de Meaux – progettano con entusiasmo un viaggio nel deserto di Smara. È settembre del 1930, il primo, ventiseienne, si unisce a una carovana di berberi “sotto femminili spoglie”, il secondo, ventiquattrenne, parte come medico. Il viaggio durerà due mesi e mezzo, “in mezzo a tribù agguerrite, gelose della loro indipendenza”. I due – come spiega Jean nell’introduzione alla prima edizione dei taccuini, nel 1932 – volevano “penetrare fra i ribelli dell’Anti Atlante e del Río de Oro e tentare di raggiungere Smara, la città di Maa el-Ainin, rimasta fino ad allora misteriosa”.
“Smara. Taccuini di viaggio” (Edizioni Settecolori, pp. 280, euro 25, traduzione di Leopoldo Carra) è il diario che Michel Vieuchange terrà di questo viaggio. Le cose terribili che vede, le sofferenze le fatiche e i traguardi di questo viaggio saranno fotografati e appuntati: il taccuino sarà il suo unico interlocutore – parole da conservare come memoria del viaggio e appunti che in realtà sono rivolti al fratello Jean – perché non parla né il berbero né l’arabo. Comincia così un viaggio pericoloso e dolorante nelle babbucce da donna, in cui bisogna nascondersi per scampare ai pericoli e ai predoni, avere pazienza e paura, soffrire la fame e la sete, combattere con insetti come le mosche e i pidocchi. E poi Smara.
“Tre misere ore ho vagabondato tra le tue rovine – subito scacciato lontano da te”.
Michael Vieuchange era lì semplicemente per vedere, con “un improvviso calore in petto, un moto del cuore…”.
Parole e immagini, a descrivere non solo il viaggio nei meravigliosi paesaggi, ma anche il viaggio interiore di Michel Vieuchange. Così come procede il cammino, anche l’animo di Michel si prosciuga, percorrendo “a piedi e sul cammello, in una regione desertica, quasi millequattrocento chilometri. Riuscì a compiere la missione che si era prefissato. Ma al ritorno, pochi giorni prima di raggiungere la zona francese, veniva colpito dalla dissenteria e moriva il 30 novembre, a Agadir”, racconta sempre Jean. Oramai l’unico suo desiderio era di arrivare e di farla finita, senza trovare nessuna gioia, nemmeno nello sfinimento finale.
Genet lo definisce un artista, un genio, per altri sarà un santo, per altri ancora un martire senza un fine. Le interpretazioni di questo gesto sono differenti e molteplici, fatto sta che dall’agiatezza borghese, Michel Vieuchange “sente il bisogno di dedicarsi a un’azione difficile che lo impegni totalmente, anima e corpo”, decidendo di raggiungere l’estremo, la sofferenza, attraverso un viaggio che si mostrerà duro sin dai primi passi – dalle prime righe del taccuino – e di cui non vedrà mai il ritorno.
Marianna Zito