“Siamo tutti un po’ misantropi”: la lettura di Leonardo Lidi de “Il Misantropo” di Molière
Che cos’è l’amore? Dove giunge il limite dell’amore malato? Chi detta le regole del gioco? Ammetto di avere avuto i brividi e le lacrime ai confini degli occhi a più riprese durante la versione di Leonardo Lidi de “Il misantropo” di Molière al Teatro Carignano di Torino dal 3 al 22 maggio, Prima nazionale. Dopo aver visto la sua “Casa di Bernarda Alba” che ha inaugurato la stagione del Teatro Gobetti, ero fremente di vedere il suo lavoro su questo testo che rende omaggio al quattrocentesimo anniversario dalla nascita dell’autore.
Via il sipario, ed eccoci precipitati in un’atmosfera sterile ma non asettica. È metafora forse del deserto che Alceste crea attorno a sé in quanto misantropo, o dello spazio della sua mente (oppure del suo cuore?), cui si può accedere solo passando attraverso una porticina minuscola sul fondo della scena. Le pareti nere che la circondano formano un semicerchio che sembra abbracciare e portare l’intero pubblico in uno spazio claustrofobico e a tratti angusto. Sui trucioli che rivestono il pavimento si muove un Alcesti non barocco ma più che mai attuale, interpretato da Christian La Rosa, che con la sua naturalezza espressiva trasmette al pubblico tutta la schiettezza, la forza e il dualismo della personalità del protagonista. Un attore che sa rendere il passaggio (talora graduale, talora duramente improvviso) dall’ironia amara al dramma, che caratterizzano il testo. Sin dalle prime battute rivendica il proprio pensiero come portatore di verità universali, che saranno destinate sempre di più nel corso del testo a restringere i propri confini sino a chiudersi in quella che è una verità completamente soggettiva. È la cecità dell’amore a condurlo a una disperazione totalizzante, che La Rosa fa trasudare in maniera viscerale. Accanto a lui sul palco Giuliana Vigogna, che interpreta una Celimene inconsueta, perché come afferma Lidi nelle note di regia: “è la visione ad essere superficiale, non il personaggio. Questo sarà un nodo interessante da sciogliere”. Così trasmette al pubblico una leggerezza che trasuda però di forti contraddizioni tra convenzioni sociali e moti sentimentali. Due visioni e tendenze opposte: il rifiuto del mondo di Alceste da un lato e la volontà di circondarsi di persone dall’altra (Celimene).
Ed è proprio sul palco che il regista Leonardo Lidi non fa mancare l’uomo in smoking senza volto, artificio retorico per la rappresentazione dell’Altro che abbiamo visto tirare le fila nella sua “Casa di Bernarda Alba”, interpretato sempre da Riccardo Micheletti, già assistente alla regia. Qui l’archetipo del “senza volto” lo ritroviamo moltiplicato nei corpi degli allievi della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino, che diventano presenza ingombrante e attenti ascoltatori.
Lidi, con l’aiuto dell’assistente alla drammaturgia Diego Pleuteri, utilizza il testo per mostrare le diverse sfaccettature dei rapporti umani e sentimentali, facendo interpretare a Orietta Notari il personaggio di Filinte, innamorato di Eliante (Marta Malvestiti): un amore destinato ad essere solitario e unidirezionale, un amore fatto di sogni ma non di concretezza: la Notari porta con sé tutta la dolcezza di questo sogno infranto. Ma l’amore di Eliante nei confronti di Alceste è parimenti irraggiungibile e irrealizzabile: è questo a unire strettamente e filologicamente le due donne in scena. Gli amori infranti non si limitano a questi personaggi, ma coinvolgono anche Oronte (Alfonso De Vreese) e Arsinoé (Francesca Mazza), che fanno volare il loro amore sulle ali della poesia. Struggente l’interpretazione del monologo di Francesca Mazza, introdotto dalle note di “Guarda che luna” di Fred Buscaglione, che porta sul palco tutto il dramma del passare del tempo, degli amori non corrisposti, del mondo che si fa beffe della poesia. Oronte, invano spasimante della bella Celimene, canta con parole leggere le sue serenate e accompagna le scene della festa suonando una melodia alla chitarra: il suo sonetto è composto da Nicolò Tomassini. Il sapiente utilizzo delle luci e la messinscena sono opera di Nicolas Bovey, che ci fa assistere a uno spettacolo ambientato in quel deserto che Alceste vagheggia e illuminato da luci che creano movimenti e netti contrasti, agevolati dalla scelta cromatica del bianco e nero nei costumi di Aurora Damanti e dai suoni curati da Dario Felli.
Riconferma Leonardo Lidi le proprie grandi doti da regista con questa personale rilettura dell’opera di Molière, che colpisce il pubblico con violenza psicologica e a tratti fisica, quando mette in scena la propria genialità e fa emergere la bravura degli interpreti. Il pathos del racconto giunge al culmine con una scena di impatto emotivo e drammatico: un diluvio vero e proprio, catartico e doloroso si abbatte sul palcoscenico facendo sentire il disperato inno d’amore che intesse la rappresentazione.
Giulia Basso
Fotografia di Luigi De Palma