Sessant’anni dopo, il Vajont al Teatro Gobetti di Torino
Prosegue la stagione del Teatro Stabile di Torino. L’ultimo spettacolo che noi abbiamo avuto occasione di esperire è stato VajontS23, in scena dal 5 al 9 ottobre al Teatro Gobetti di via Rossini. La lezione-azione corale di Marco Paolini e Gabriele Vacis sviscera cause e conseguenze del famigerato disastro del Vajont, al confine tra Friuli e Veneto, nel neo-bacino idroelettrico artificiale del torrente omonimo. È la sera del 9 ottobre 1963: un fianco del Monte Toc crolla nel bacino, l’acqua tracima e l’onda, superati gli argini, raggiunge Erto e Casso, e successivamente Longarone. Il lavoro di Vacis, tuttavia, è interessante soprattutto perché pone sotto esame anche tutte le figure più o meno responsabili: il geologo austriaco Leopold Müller, l’italiano Giorgio Dal Piaz e i Semenza, Carlo ed Edoardo, padre e figlio, geologo e progettista.
In scena, sette banchi uno di fianco all’altro. Sul palco ci sono Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Pietro Maccabei, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti e Giacomo Zandonà, dalla scuola dello Stabile. Si soffermano, prima di cominciare, sulle differenze fra le generazioni del passato e la nostra: subito, eccola, la politicizzazione. E le azioni, che non sono più tali ma divengono gesti: Ian Palach versus Blanco e i calci alle rose. Ero in auto con mio padre, e davanti a noi uno svolta senza inserire la freccia. E lui: …vedi? Per questo poi vince la Meloni. Poi Vacis da il la: quanto pesa un metro cubo d’acqua? Da solo, e da fermo, una tonnellata. Ma massa per accelerazione uguale forza. E qui si parla di 260 milioni di metri cubi. Casso ed Erto, in parte, si salvano. Ma le frazioni, quelle con poche decine di abitanti? E nessuno poteva prevederlo? Giorgio Bocca, per esempio, ritiene che si sapesse. Dino Buzzati invece sostiene che un sasso sia caduto in un bicchiere: è normale che l’acqua trabocchi. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Ma sicuro: quella è ancora lì. Però son morte 1917 persone. Nell’83 Tina Merlin, bellunese, scrive il saggio Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe, in cui ripercorre la vicenda a partire dal ’56, con i paesini in lotta contro la SADE, Società Adriatica Di Elettricità, che alla fine confluirà nella Montecatini. Il testo racconta la speculazione idroelettrica, dovuta a certe menti dedite un po’ troppo al profitto: un sistema di persone e idee che lavoreranno per e con lo stato, il quale finanzia il progetto all’80%. Però col boom economico soggiunge una sincera megalomania: la barriera doveva essere alta duecento metri, ma perché non aggiungerne altri sessanta? Bisogna far brillare 400.000 metri cubi di roccia, servono quattrocento operai e non c’è una vera opposizione: oggi forse andrebbe diversamente, si pensi al TAP e al TAV. Forse all’epoca era un altro il discorso che faceva presa, e su più livelli: il cantiere porta lavoro, porta ricchezza. È mancata la lungimiranza, che però a essere onesti non abbiamo ancora sviluppato. Gli espropri sembravano inevitabili: lo spettro del progresso ancora oggi giustifica qualunque mezzo e anche molti fini paralleli. Le città annegano, ai contadini non resta niente: il dispetto della storia che si ripete. Ciclica, immortale.
Lo spettacolo è molto lineare, volutamente statico (quasi a voler imbastire un’idea di antitesi rispetto alla montagna che crolla), e rinuncia in parte ad essere tale per farsi invece reportage sulla società e sull’ecologia: le informazioni si susseguono come in una denuncia. Spesso emergono dei ragionamenti che agguantano lo spettatore per politicizzarlo e portarlo a riflettere ancora più a fondo su questioni che magari si era già posto: …russi e americani volevano andare sulla Luna, noi costruivamo le dighe. E poi i retroscena, che condiscono un piatto già ricco, come l’aneddoto della commissione di collaudo che arriva da Roma e li portano in gita a Cortina e poi Venezia; o il processo a Tina Merlin, denunciata per aver seminato il panico: il processo durerà mezz’ora. Si prova sconforto, uno scoramento anche un po’ atavico ormai, il quale vortica attorno ad una certezza, e cioè che gli umani non concepiscono più né la natura, né loro stessi, come parti di un tutto che merita rispetto.
Davide Maria Azzarello