“Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi? “: Di Tanno vola tra le parole di Pirandello
A chiudere la personale di Fortebraccio teatro accolta calorosamente dal pubblico romano è stato il recente premio Ubu under 35 Piergiuseppe Di Tanno con ‘‘Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi?”. L’opera rappresentata al Teatro Vascello di Roma dal 18 al 20 ottobre, è un lavoro decostruito a partire dalla tragedia pirandelliana senza, questa volta, in scena Roberto Latini che ne cura solo la regia. Con gli occhi rivolti al cielo vediamo il performer di spalle in equilibrio su un elevato trespolo a forma di parallelepipedo, un secondo palchetto sul palcoscenico che allude al metateatrale. Indossa la mezza maschera che ricorda un teschio, bianca come la canottiera che copre il suo petto. Al collo ha una gorgiera viola e sfoggia dei pantaloni neri plastificati e aderenti. Le unghie delle mani e dei piedi sono laccate come un personaggio dark. Un’enorme tela fa da sfondo all’esibizione che avviene in uno spazio nudo di arredi, quasi al buio e vuoto, perché si abbia fin dal principio – come annotava Pirandello nella didascalia iniziale – l’impressione di uno spettacolo non preparato e la trasformazione del teatro nel luogo aperto in cui si svolge il dramma vero.
In penombra, la figura di Di Tanno si agita sinuosamente. La bocca, ora chiusa in un ghigno ora grotta spalancata, si fa subito narratrice del doloroso dramma dei Personaggi, costruzioni della fantasia, in visita dal capocomico per cercare qualcuno che li faccia vivere artisticamente. Protagoniste assolute diventano le parole di cui l’attore si serve in senso concreto e spaziale. E la voce, in tutti i suoi timbri e cambi repentini, si muove dentro le parole, seguendo il respiro, per arrivare addirittura a inchiodarsi alle ossa. Di Tanno pronuncia le frasi in modo asciutto, altre volte le smonta, disorganizza i suoni, si concede senza remore a una suggestiva avventura sintattica, spensierandosi in musica, diventando filtro e vomitando la furibonda ribellione di ‘figure più reali e consistenti della volubile naturalità degli attori, nate vive dalla fantasia di un autore che ha voluto poi negargli la vita’. Un dire che stratifica le presenze e brucia immediatamente, retto da una costante tensione. Ogni tanto a provocare un’interruzione arrivano un faro (luci e direzione tecnica di Max Mugnai), che fende il buio qui e lì con rapide e improvvise accensioni, e un ventilatore che alza appena il telone concedendo alcuni minuti di refrigerio. Momento cruciale è quando l’attore solleva la maschera, lascia cadere la gorgiera, strizza la canotta del sudore che lo ha sopraffatto, mentre si alza un velario nero su cui appare proiettata una sfilza di parole: virgola, due punti, pausa, realtà, finzione,vera, il tutto accompagnato da pennellate di musica elettronica (Gianluca Misiti) che rimbombano nella sala, amplificando l’atmosfera onirica. Il performer rientra ora con una giacca bianca e dei guanti di pelle stretti in mano, supplica che il macchinista gli lasci accesa almeno una lampadina e recita l’ultima didascalia illuminata da una luce rosso vivo, contro un trasparente sudario nero. Quando cala la tela declama il monologo della figliastra, tutto teso a una preghiera carnale di puro lirismo, che si fa fantastico volo nell’attore. Il piedistallo si trasforma in bara, rimanda alla vasca in cui la bambina (non) annega e il giovane interprete dà vita in inglese al dialogo dei becchini del V atto dell’Amleto mentre sono alle prese con il cadavere di Ofelia. Sulle splendide note di “Midnight the Stars and You” si sentono registrati i versi del Padre: «Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!». Dal ventilatore, trasformatosi in una macchina magica fuoriesce la schiuma di sapone che sommerge il settimo personaggio, quasi a denunciare l’impossibilità dell’arte contemporanea di trovare il significato della vita e rappresentarlo.
Degna di lode la performance dell’interprete che ci ha dimostrato l’importanza del palcoscenico come luogo in cui si giuoca a far sul serio. Una meraviglia questo attore di cui sentiremo sicuramente parlare ancora.
Diana Morea