“Se resistere dipende dal cuore”: la poesia di Amelia Rosselli illumina la Domus Aurea
“Se resistere dipende dal cuore” è un lavoro più unico che raro in cui la voce di Elena Bucci e i suoni di Luigi Ceccarelli, fondendosi tra loro, tessono le trame di un’ode appassionata sull’arte orale, un’arte antica quanto la poesia nel suo venire alle luce come evento sonoro.
La performance vista venerdì 19 maggio è stata tassello di un mosaico di nove incontri, tutti dedicati alle Muse, su cui si articola il ben più ampio progetto: “Moisai 2023.Voci Contemporanee in Domus Aurea”. Una visita guidata per le stanze di quella che in passato è stata la residenza imperiale di Nerone ha preceduto la felice esperienza dell’arte performativa all’interno della sala ottagonale.
Lo spettacolo prende vita dai versi della poetessa Amelia Rosselli e si sviluppa secondo un crescendo di variazioni ritmiche e di improvvisazioni che fanno tesoro delle più recenti risorse della tecnologia digitale e della diffusione sonora. Scomparire dietro il verso, avere fede nella sua potenza espressiva e lasciarlo vivere da solo, servirlo il più possibile. La poesia orale è questo rito, l’ambito in cui il silenzio fra le parole assume una carica esplosiva tanto da poter indurre a una trasformazione interiore. La voce, l’orecchio, la parola, il respiro, questi “semi della divinità” sono alla base della rivelazione che l’arte persegue e che la poesia con tanta penetrante forza sa far accadere. “Incanto fonico” lo chiamava Amelia Rosselli per la quale la problematica della forma poetica è stata sempre connessa a quella più strettamente musicale. Come si evince dalle note di regia, il nome di Amelia Rosselli evoca una valanga di immagini ed emozioni spesso contrastanti: una poesia potente e ironica, una malattia insidiosa, una densa storia familiare abitata da personalità originali e complesse. Echi di lingue diverse, impennate, furie e dolcezze raccontano gioie e dolori di un’intera esistenza. La perdita del padre, Carlo Rosselli e il fratello Nello, teorici del socialismo liberale, furono assassinati dalle milizie fasciste francesi su mandato di Mussolini e Ciano. Un trauma che Amelia porterà dentro per tutta la vita. Da allora sarà perseguitata dall’ossessione di essere osservata dai servizi segreti che vogliono ucciderla. Innumerevoli i trasferimenti della poetessa che vivrà così da esule. Studia teoria musicale, composizione, etnomusicologia, suona il violino e il pianoforte, scrive qualche saggio sull’argomento, va anche in scena con Carmelo Bene su versi di Majakovskij. Dopo la perdita della madre malata di cuore, inizia a lavorare come traduttrice dall’inglese per editori di Firenze e Roma, e poi anche per la Rai. Frequenta l’ambiente letterario romano tramite gli amici Carlo Levi e Rocco Scotellaro, e si avvicina alle avanguardie del Gruppo ‘63. Le sue poesie attirano l’attenzione di molti intellettuali tra cui Pasolini. Per Amelia scrivere voleva dire chiedersi come è fatto il mondo. Si definiva poetessa della ricerca. Lontana da qualsiasi moda, precisava: “quando non c’è qualcosa di assolutamente nuovo da dire, il poeta della ricerca non scrive. Si scrive soprattutto per la posterità, quando si scrive bene. Il pubblico dei posteri è inimmaginabile e così i suoi gusti”.
La lingua resta il cuore pulsante per l’intera opera della Rosselli, nel suo caso trilingue, il francese, la lingua dell’infanzia, l’inglese quella della madre con cui cresce, l’italiano quella del padre. È una lingua viva e ribollente che rispecchia la realtà frammentata della poetessa e il suo spirito apolide. Nel sodalizio di voce e suono collaudato dal duo Bucci – Ceccarelli, con incursioni della voce della Rosselli cadute in picchiata di tanto in tanto nel corso della performance, i presenti hanno potuto conoscere più da vicino il racconto di una vita intensa, le fragilità di una donna che con mille difficoltà è riuscita a costruirsi una propria indipendenza. Sola, anche nei momenti più critici, con tutto lasciato al caso e nella più assoluta precarietà. Votata interamente alla poesia, a quella “vecchia signora scalza”, con le mani sporche d’inchiostro che quasi spaccavano la macchina a volte per l’intensità con cui scrivevano.
Diana Morea
Fotografia di Lidia Bagnara