“Sani! Teatro tra parentesi” con destinazione certa: NOI
Dalla transizione ecologica al pantano della pandemia, fino alla questione dell’accoglienza, temi non più prorogabili, e che pretendono una risposta concreta, mentre un’Europa sempre più soporifera tenta, invano, di rialzare la testa. Il nuovo spettacolo di Marco Paolini ha la forma di una ballata, in cui fatti autobiografici si intrecciano ad accadimenti storici, sorretti dalla potente chitarra di Lorenzo Monguzzi, “Roma da quanto tempo!” si rivolge entusiasta alla Capitale il grande affabulatore veneto, in scena al Teatro Quirino dal 5 al 10 aprile.
Dopo “I Bestiari”, i momenti epici dei racconti sul Vajont, gli “Appunti foresti, le avventure tratte dai racconti di Jack London, anche in questa occasione Paolini si conferma indiscusso capostipite della tradizione orale e guida del teatro politico contemporaneo. “Sani!” è un augurio, un viatico, il cui titolo fa riferimento all’espressione usata come saluto nella valle del Piave. Un lungo viaggio nella memoria, con rimandi agli anni del boom economico, quando a casa dell’attore poter mangiare banane era considerato un lusso, fino all’equilibrio precario sulla Terra, tra peso della biomassa e peso artificiale. Lo testimoniano i dati durissimi sul benessere: “Quanto pesa messa tutta insieme la catasta della fabbrica del Mondo? 1,1 teraton tonnellate. Una cifra inspiegabile. E tra vent’anni il peso delle cose sarà il doppio di quello della vita sul pianeta”. Parole che affettano la coscienze, e ne incitano un nuovo risveglio, un essere presenti diverso e reattivo. Non mancano attimi di forte ironia, come quando Paolini narra il fallimentare allestimento e la trepidante attesa per l’incontro con il vate Carmelo Bene, in occasione dello spettacolo “Canti Orfici e Lectura Dantis”, organizzato in un tendone da circo a Treviso nel 1983, a ridosso di una stazione ferroviaria. Un racconto spassoso, arricchito da piccoli aneddoti sui tre tir necessari alla strumentazione fonica del Maestro, per l’epoca già fin troppo all’avanguardia, e sui viaggi tragicomici con la R4 alla ricerca disperata di spettatori. E ancora l’elogio all’intuizione del militare sovietico Petrov, “l’uomo che salvò il mondo” in piena guerra fredda e la sua capacità di saper prendere decisioni sotto pressione in un tempo breve, a dispetto del sistema satellitare OKO. Seguono grigie cartoline dagli anni ’80 che vedono protagonisti Reagan e Gorbaciov, e il drammatico terremoto a Gemona, in cui Paolini si recò da volontario nel 1976. Menziona, a tal proposito, un episodio di incredibile umanità offerto da una donna esemplare come Rosina. Lei, alla quale la calamità aveva strappato quasi tutto, era ancora pronta a condividere quel poco rimastole, un caffè e una bottiglia di grappa, a chi aveva scambiato la sua casa per un bar. C’è poi la ripresa del Sogno in due tempi di Gaber, per spiegare un sogno ai limiti del paradosso, dove prima un uomo in zattera votato ai principi della solidarietà, scorgendo venirgli incontro un altro a nuoto, non tanto si mostra favorevole nel soccorrerlo. Quando nel secondo tempo, lo stesso uomo è colui che questa volta sta in mare, esclama deciso: Sono per l’accoglienza! E sul finale la possibilità di descrivere una cattedrale a chi non vede, ispirandosi al cieco del famoso racconto di Raymond Carver, per riferire la genesi de la Sagrada Familia a opera di Gaudì, ancora oggi incompleta. Ne racconta il suo evolversi, la ferma consapevolezza dell’artista nell’erigere qualcosa da destinare al prossimo, e di cui non ne avrebbe visto il compimento. Un ostinato donarsi alla propria missione, da cui dovrebbe prendere esempio un’ Europa “… molle, vecchia, una casa di riposo per anziani con piscina, mentre sull’altro lato della strada c’è un asilo nido chiamato Africa che non la fa dormire”.
E oggi più che mai, dopo una crisi profonda che “spezza il fiato, e spazza la vita”, ci rendiamo conto che il nostro equilibrio è sempre più fragile, compromesso, come il gigantesco castello di carte da gioco trevisane, che costituisce la scenografia sullo sfondo. Per evitare di cadere, bisogna reggersi reciprocamente, fare tutti la nostra parte, insieme. Secondo Paolini il teatro politico di oggi non può semplicemente rincuorarsi con il “Tutto andrà bene”, né fondarsi sulle appartenenze. Ma all’etica deve seguire una pratica, perché nessuno, né teatro né spettatore, possono bastare a se stessi. La sua è una profonda fiducia verso l’oralità, perché per avere una dimensione utopica occorre avere uno straccio di memoria condivisa, mettere in salvo micro e macro storie, cercare di capire i fatti e le persone, riscattare bellezza, ritrovare pietà, restare svegli.
Diana Morea