Salone del Libro di Torino – Intervista a Paolo Morelli
Venerdì 10 maggio 2019. La Libreria Pantaleon, nell’ambito di Salone OFF Torino, ospita la presentazione di un insolito libro di racconti, dal titolo “Animali non addomesticabili” (Edizioni Exórma, collana quisiscrivemale, pp. 279), frutto del sodalizio tra Giacomo Sartori, Paolo Morelli e Marino Magliani, oltre a Paolo Albani che è l’unico assente alla serata. Storie di animali dunque, ma non in chiave allegorica. Come il giornalista Dario De Marco sottolinea, a ogni protagonista corrisponde un preciso slancio vitale, un tipo di linguaggio, uno spiraglio attraverso cui sbirciare. L’intento, che ciascun autore declina secondo la proprio rapporto con la scrittura, consiste nel rivendicare il primato della fantasia nella sua autentica dignità espressiva e conoscitiva. Ne parliamo più diffusamente il giorno dopo, al Salone internazionale del Libro, con uno degli autori.
Paolo Morelli, sul risvolto di copertina Lei è definito “il tipico animale che scrive libri”. Si potrebbe aggiungere: libri che sono a tutti gli effetti “a voce alta”?
Credo di sì. Siamo sommersi di libri che in fin dei conti sono afoni, e libri afoni presumono del lettori sordi. Si presume un rapporto di complicità dipendente con l’autore. Non è quello che intendo io per letteratura: per me la voce di una narrazione è più che parte integrante, è la logica intera di un libro. Se manca, il risultato sarà inefficace. Anni fa ho scritto “L’arte della viva voce”, che contiene una serie di consigli, da quelli più semplici – la postura, la respirazione – ad altri più intensi, gimnosofisti, tesi al recupero della fisicità nell’approccio sia da parte dello scrittore che del lettore. L’esilio del corpo dalle attività della conoscenza ha prodotto, nel campo della narrazione, una letteratura anemica e piatta, in linea con tutta la tendenza di conformismo, anzi direi di auto-censura dello spirito che si respira in questo momento, soprattutto nel nostro paese.
Una letteratura piatta, che appiattisce il lavoro stesso degli scrittori…
Ci si appiattisce su una lingua vera e propria che possiamo chiamare “letterariese”, che già presume una chiusura rispetto al mondo. Molti tra gli autori italiani contemporanei, quando hanno rapporti con la gente, sono completamente spaesati e vengono ricambiati con lo stesso tipo di spaesamento – e questo nella scrittura si sente e si vede. Un mondo chiuso che vuole essere tale, perché all’interno di questa afonia tutto è possibile. Poi ovviamente è necessario che si inventi la grande retorica del libro, la grande necessità per tutti di mettersi, leggendo, dalla parte giusta. Che ha poco a che fare con la forza dirompente, o anche delinquente, della letteratura, nel senso etimologico di “lasciare la via comune”.
Al di fuori della pagina scritta, c’è ancora un mondo aperto e in qualche modo selvaggio?
Forse – temo – ancora non per molto. Stando a un recente rapporto del WWF, tra qualche anno un milione di specie sparirà. Ci resteranno forse solo i cagnolini da salotto, cioè animali a nostro completo uso e consumo. Del resto, la stessa cosa è storicamente avvenuta nella letteratura: l’animale è stato utilizzato e brutalizzato dalla necessità di incarnare l’umano.
In “Animali non addomesticabili” si tenta di rovesciare questo rapporto?
Non di rovesciare, direi invece rendere efficace. Dagli animali c’è molto, moltissimo da imparare. Non come gioco o svago, ma come necessità: in una realtà dominata da una razionalizzazione feroce, che spaccia la fantasia come pura e sterile evasione, gli animali sono veri maestri. Come ho avuto modo di dire ieri, originariamente il titolo che avevamo proposto era “Guida per animali non addomesticabili”, ma sarebbe stato troppo lungo. Del resto è un libro nato casualmente, e a volte le cose non volute sono più fresche, hanno più vita e più voglia. Conoscevo Marino Magliani, anche se non troppo bene, mentre Giacomo Sartori l’ho incontrato di persona per la prima volta soltanto ieri. La reciproca conoscenza è avvenuta attraverso la scrittura. Eppure siamo riusciti ad assemblare questa idea in cui ci sono tre diversissimi modi di approcciare la questione. Ad esempio tra la prosa elegante e ricca di Magliani e la mia c’è un abisso, però il tentativo, la tensione di fondo, è la stessa. Si tratta di mettersi completamente in gioco.
Un gioco fecondo, nel quale prendendo sentieri diversi riuscite ad esplorare territori molto aperti, che sfuggono al controllo.
Il problema è che nella letteratura così come nella società, tutto si sta riducendo, qualsiasi tipo di “altra” visione viene in qualche modo emarginata. Si può oramai scrivere quasi solo in una maniera, e cioè derivando dall’informazione, che è diventata la vera musa ispiratrice della letteratura. Giovan Battista Vico già lo diceva: “la memoria è l’istesso della fantasia”. Dunque qualsiasi cosa, passando attraverso il filtro delle parole, diventa fantasia. Questo viene completamente dimenticato, a favore di una realtà di fatto che io mi trovo a dover in qualche modo documentare per il lettore. La letteratura diventa l’ultimo tentacolo dei media. Questa secondo me è una sconfitta totale.
In uno dei racconti* assistiamo al dialogo tra un libro e il pidocchio che ne divora le pagine. Pur essendo ricco di saggezza, alla fine il libro rimane annichilito.
E non si tratta di un libro qualunque, ma delle Memorie di Marco Aurelio. Che un’opera del genere si ritrovi “senza parole” è un indizio chiaro. Il sistema che abbiamo adoperato fino a ora per organizzare e controllare il mondo ci sta conducendo al baratro, è indispensabile assumere un altro tipo di mentalità. Ma questa esigenza non è ancora sentita in modo abbastanza chiaro, soprattutto dagli scrittori.
Alla luce di tutto questo, che consiglio darebbe ad un giovane lettore? Quale può essere l’impegno, da lettore, per sviare da questo meccanismo?
Sicuramente di non soffermarsi sull’odierno, e di andare sempre molto indietro, prendendo le giuste distanze dall’idea modernista secondo cui c’è solo il futuro e non bisogna perdere tempo a guardare cosa è rimasto alle nostre spalle. Grazie a Dio abbiamo tantissimo da leggere nel passato, e vi troviamo gli esempi giusti. È un po’ difficile per un lettore, specie se giovane, avere un minimo di indipendenza di pensiero. Una buona cosa sarebbe guardare anche alle biografie. In questo, meno male, la deriva ottocentesca di separare la vita dello scrittore dalle sue opere – la logica per cui uno può essere un personaggio abominevole ma scrivere delle cose eccelse – sta finendo. Secondo me le due cose non possono essere tenute separate, anzi andrebbe rinverdita la categoria filosofica della kalokagathia, nel senso di tendere il più possibile ad avvicinare il bene al bello. Questo è quanto ci è dato fare, come lettori, affinché i libri che scegliamo ci forniscano consapevolezza e senso dell’orientamento. In un mondo che appare avviato su una strada obbligata e globale verso qualcosa che ha grosse somiglianze con il fascismo, i libri possono innescare quel minimo di spiazzamento, indispensabile, per stimolare la capacità di orientarsi.
*Dal titolo “Ohé, atto unico del Lipòscelis divinatorius, ovvero pidocchio dei libri, il quale è stato costretto a inviarlo per delega, giacché si trova indisposto”
Pier Paolo Chini