Salone del Libro di Torino – lntervista a Fabrizio Coscia
Domenica 12 maggio 2019. Fabrizio Coscia ha appena presentato “I sentieri delle ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso”, un libro particolarmente denso, che conclude la trilogia iniziata nel 2015 con “Soli eravamo e altre storie” e proseguita nel 2017 con “La bellezza che resta”. Una densità che non è solo ricchezza di riferimenti all’arte, alla letteratura e alla cinematografia ma che riguarda proprio il modo di scrivere, di intrecciare il discorso. Non a caso, durante la presentazione che si è tenuta in Sala Indaco, dialogando con Filippo Tuena l’autore ha detto: “Dove arrivo con un libro, lo scopro solo scrivendo.” Tre le figure centrali, che attraversano tutta l’opera: Dora Markus, cui Eugenio Montale ha dedicato l’omonimo componimento pur senza conoscerla (se non attraverso la fotografia delle sue gambe), Marthe, moglie e modella dell’artista Pierre Bonard, e la Ninfa come “fantasma erotico” che lo storico dell’arte tedesco Aby Warburg ha indagato, spingendosi quasi ai limiti dell’ossessione, partendo dai quadri del Rinascimento italiano.
Fabrizio Coscia, che rapporto si instaura, che temperatura percepisce da parte dei lettori?
Succede sempre qualcosa di strano. Ciò che accomuna questo libro ai due precedenti è una modalità di scrittura nuova, che ibrida e mescola diversi generi letterari. A metà tra il saggio, la critica d’arte, la narrazione, il romanzo; c’è anche una forte ed esplicita componente autobiografica. Avendo una collocazione erratica e un po’ eccentrica, è complicato prevedere l’accoglienza e la ricezione. Invece ogni volta sono piacevolmente sorpreso dal fatto che forse proprio questa modalità non convenzionale di scrittura, che rifugge dal genere ben definito, viene accolta con molta curiosità, e spesso quelle che ricevo sono letture appassionate, sia dal punto di vista critico sia da semplici lettori che mi scrivono. Ecco, mi colpisce il fatto che il lettore, arrivato alla fine della lettura, senta il desiderio di comunicarmi questa esperienza. Per me è molto importante, perché la dimensione autobiografica che intreccio con il discorso critico ha proprio la funzione di creare una sorta di dialogo diretto. Generalmente nel saggio il critico si nasconde dietro l’oggetto di studio, non si mette a nudo: a me invece piace l’idea che il lettore abbia di fronte a sé una persona, con il suo vissuto e la sua interiorità.
Un dialogo diretto e coinvolgente, fin dalle prime righe: “Forse noi siamo troppo assediati dalle immagini per accorgerci davvero di ciò che vediamo. Il troppo equivale al nulla.” Già da queste parole, il lettore ha subito la sensazione che il libro in qualche modo lo riguardi, abbia dei punti di contatto non superficiali con la sua esistenza.
L’assedio delle immagini, proprio così. L’idea era quella di partire dalla ninfa, che è una figura di fuga, una figura dell’eros, ma prendendola come immagine. E come spunto per riflettere su cosa si nasconda dietro a un’immagine. In un periodo come quello che viviamo, a mio avviso, si guarda e si legge molto superficialmente: la lettura profonda, anzi a maggior ragione la lettura dell’immagine profonda, è una esigenza sempre più forte. Bisogna re-imparare a guardare un’immagine e a ricavare dai suoi dettagli qualcosa di più ampio, di più profondo.
A questo proposito, Lei scrive “Forse dovremmo tornare a guardare i quadri, perché non c’è niente come la pittura per testimoniare l’esistente: osservare un quadro vuol dire imparare di nuovo a vedere attraverso lo sguardo dell’artista.” Che cosa rappresenta il quadro, in una società e in una comunicazione dominate dalla rapidità con cui si scatta una foto tramite smartphone e la si condivide immediatamente?
Il quadro ci può addestrare a guardare l’immagine come qualcosa di complesso: quello che ci viene restituito dallo sguardo dell’artista è un vero e proprio mondo. Ritornare ad analizzare i quadri ci aiuta anche ad affrontare la modernità in maniera più consapevole. A non farcela passare davanti agli occhi in maniera effimera e fugace. Come effimera e fugace è, per l’appunto, la pratica del selfie che ormai è dominante soprattutto per le nuove generazioni. Il selfie, in modo analogo al mito di Narciso, racconta di una umanità che non si confronta con l’altro ma soltanto con l’immagine di se stessi. L’intento, nel mio libro, è di partire dal mito della Ninfa per costruire qualcosa di diverso: confrontarsi con l’immagine dell’altro significa costringerci a venir fuori, a dimenticare noi stessi, a perderci nell’inseguire l’altro. Ed è importantissimo perché soltanto se riusciamo davvero a perdere completamente noi stessi possiamo in qualche modo ritrovarci. Come nel mito di Orfeo, che deve scendere negli Inferi e deve perdere definitivamente Euridice per poter poi cantare, elaborare questa perdita.
Da dove nasce il sottotitolo “Nei dintorni del discorso amoroso”?
Dal fatto che è inevitabile restare ai margini: scrivere – tanto quanto parlare – d’amore, è impossibile. L’amore non si può “dire”, ce lo ha insegnato Roland Barthes. Il discorso amoroso, in fondo, ci porta a muoverci, a metterci sulle tracce, a iniziare l’inseguimento. Ma siamo quasi sempre destinati a non riuscire mai ad afferrare l’essenza del discorso, o meglio, l’essenza dell’eros. Ci è dato solo discorrerne, nel senso etimologico di passare da qua a là. Possiamo soltanto muoverci intorno, e nei dintorni.
Un’ultima domanda: giacché il libro chiude una trilogia, il lettore cosa può aspettarsi per il futuro?
Qualcosa di completamente diverso, è sicuro.
Pier Paolo Chini